Il 26 novembre 2013 l'avvocato generale Villalon ha presentato le sue conclusioni nel procedimento C-314-12 dinanzi alla Corte di Giustizia Europea. È piuttosto interessante notare che vari articoli, su giornali e online, di commento al documento si sono soffermati su un aspetto tutto sommato marginale, sostenendo che l'Europa fosse, quindi, favorevole al blocco dei siti web. Come a sottintendere che, finalmente, c'è il "via libera" dell'Europa!
In realtà anche se questo è il primo caso nel quale la Corte europea si occupa specificamente di web blocking (prima andavano di moda i 3 strikes, poi si è scoperto che sono del tutto inefficaci), bisogna ricordare che i provvedimenti di blocco di siti web sono ormai pratica comune in vari paesi europei, tra i quali l'Italia si mostra, purtroppo, particolarmente attiva, insieme alla Gran Bretagna. In molti paesi (es. in Svizzera su pressioni dell'USTR americano) si stanno avviando riforme per introdurre tali tipi di provvedimenti. La vera novità delle conclusioni dell'avvocato generale è data piuttosto, come sottolineato da Marco Bellezza e Innocenzo Genna, dai paletti che Villalon pone a questo tipo di provvedimenti inibitori.
Prima di analizzare le argomentazioni dell'avvocato generale occorre, però, premettere che pur trattandosi di un parere importante, e che in genere le conclusioni dell'avvocato generale vengono riprese in sentenza, si tratta comunque di conclusioni che la Corte potrebbe non accogliere o farlo parzialmente, anche se nel caso specifico risulta difficile poiché si rifanno ampiamente a precedenti decisioni della medesima Corte.
I fatti sono i seguenti. Il sito internet kino.to consentiva agli utenti di accedere a numerosi film protetti dal diritto d'autore (circa 130mila opere per oltre 4 milioni di utenti). Il titolare dei diritti di una serie di opere presenti sul sito, dopo aver sollecitato in via stragiudiziale la UPC Telekabel, fornitore di accesso a internet, a bloccare il sito in questione, si rivolge al tribunale austriaco perché adotti un provvedimento cautelare nei confronti dell'intermediario al fine di imporgli il blocco del sito, in considerazione del fatto che "con quasi assoluta certezza" alcuni clienti della UPC Telekabel hanno usufruito dell'offerta illecita di kino.to. Il provider di accesso si oppone sostenendo di non avere alcun rapporto contrattuale con il sito incriminato, ma solo con i suoi clienti che avrebbero avuto accesso al sito e che comunque non avrebbero commesso alcun illecito.
Nel 2011 il tribunale impone alla UPC Telekabel di bloccare ai suoi clienti l'accesso al sito a mezzo di blocco del DNS del dominio e di blocco degli indirizzi IP attuali e futuri.
A seguito di ricorso del provider, il giudice d'appello vieta comunque la fornitura di accesso al sito, ma stavolta senza menzionare le misure tecniche specifiche, così imponendo un obbligo di risultato, cioè impedire l'evento (l'accesso al sito) lasciando però all'intermediario il compito di stabilire i mezzi tecnici per ottenere il risultato.
Infine, a seguito di ricorso per Cassazione, il caso viene sottoposto alla Corte di Giustizia dell'Unione europea.
In merito alle questioni sottoposte alla Corte, l'avvocato generale Villalon presenta le sue conclusioni. Il primo punto riguarda la possibilità di imporre un provvedimento inibitorio nei confronti del fornitore di accesso che serve i soggetti che visualizzano il sito (e quindi che non necessariamente commettono illeciti) piuttosto che l'intermediario che serve l'autore dell'illecito (il gestore di kino.it). Questo perché il paragrafo 3 dell'art. 8 della direttiva 2001/29 prevede:
"Gli Stati membri si assicurano che i titolari dei diritti possano chiedere un provvedimento inibitorio nei confronti degli intermediari i cui servizi siano utilizzati da terzi per violare un diritto d'autore o diritti connessi".
Quindi la normativa europea prevede espressamente che gli Stati dell'Unione possano (non è un obbligo) consentire ai titolari dei diritti di ottenere un provvedimento inibitorio nei confronti degli intermediari, ma precisa che si deve trattare degli "intermediari i cui servizi" siano utilizzati per violare un diritto d'autore. La UPC, invece, ribadisce di non avere alcun rapporto con kino.to, ma solo di fornire l'accesso ad internet ad alcune delle persone che hanno usufruito del sito.
Secondo l'avvocato generale tale provvedimento è ammissibile in quanto il provider è di fatto un intermediario, cioè si pone tra due (o più) soggetti, e in tal senso anche il sito kino.to di fatto utilizza i suoi servizi (che veicolano i contenuti illeciti). Inoltre anche i soggetti che accedono al sito illegale agiscono illecitamente (pensiamo allo streaming). Infine la norma non richiede esplicitamente un rapporto contrattuale tra l'intermediario e il soggetto che viola il diritto d'autore.
L'avvocato Villalon argomenta che la direttiva 2001/29, e in genere la normativa europea (in particolare la direttiva 2004/48), considera gli intermediari i migliori destinatari possibili di misure volte a impedire le violazioni del diritto d'autore, rimanendo in una posizione chiave nei casi in cui il gestore del sito internet incriminato non sia perseguibile per questioni di giurisdizione. È altresì ovvio, però, che l'intermediario non può essere chiamato "a rispondere incondizionatamente" per porre fine alla violazione, essendo appunto terzo rispetto alla contesa.
L'avvocato generale conclude nel senso che è ammissibile un provvedimento inibitorio anche contro il provider non dell'autore della violazione ma del soggetto che accede al sito con contenuti illeciti.
Il divieto di evento, cioè l'obbligo imposto al provider di impedire l'accesso senza però indicare le misure specifiche, secondo Villalon risulta invece in contrasto con la normativa europea. Questo anche nel caso in cui l'intermediario possa poi evitare sanzioni (se non ottiene il risultato) provando di aver adottato tutte le misure ragionevoli per rispettare il provvedimento.
Le misure imposte al provider, infatti, devono realizzare un giusto equilibrio tra i diritti in gioco e gli interessi delle parti coinvolte.
Villalon ricorda che "gli Stati membri non possono imporre ai prestatori un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmettono o memorizzano né un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino attività illecite". Ciò vuol dire che non è ammissibile imporre al provider di ricercare eventuali copie della pagina illegale sotto altri nomi a dominio o di filtrare tutto il traffico per verificare se vengono trasmesse opere illecite (il filtraggio generalizzato è una misura complessa e costosa che viola anche la libertà di impresa del provider). Il giudice, infatti, deve pronunciarsi sul blocco "di uno specifico sito internet". In tal senso è essenziale "che la misura di blocco riguardi effettivamente materiale all'origine della violazione e non sussista alcun rischio di bloccare l'accesso a materiale lecito".
In base a tali considerazioni un divieto di risultato risulta incompatibile con la normativa europea perché finisce per ledere gli ulteriori diritti in gioco. Infatti lasciare discrezionalità al provider equivale di fatto a ledere la sua libertà di impresa e imporgli una scelta che non gli compete. Se egli opta per una misura che sia rispettosa della libertà di informazione dei propri clienti, potrà dover temere una sanzione per non aver ottenuto il risultato. Se invece propende per una misura più severa si esporrà ad azioni da parte dei suoi stessi clienti. È ovvio che l'equilibrio tra i diritti delle parti coinvolte non è rispettato.
Fermo restando che poi un risultato del genere richiesto (il blocco generale del sito) potrebbe non essere praticamente attuabile.
La giurisprudenza della Corte ha più volte ribadito che le misure devono essere proporzionate rispetto allo scopo da conseguire. In tal senso anche un blocco del sito, che finisce per essere facilmente aggirabile da parte degli utenti, può servire allo scopo. Questo perché un utente che vede il blocco presumibilmente capisce che si tratta di sito illecito e quindi se ne tiene alla larga. Il fatto che poi quel blocco sia aggirabile non vuol dire che sarà concretamente aggirato perché ciò "significherebbe assumere per ciascun utente la volontà di compiere una violazione del diritto".
L'avvocato generale precisa poi che "spetta al giudice nazionale esaminare tali requisiti con riguardo alla misura prevista", cioè bilanciare i diritti in gioco e gli interessi delle parti, con una valutazione complessiva che tenga conto di tutti gli elementi del caso concreto.
Quindi, partendo dal presupposto essenziale che tra le misure appropriate si deve ricorrere alla meno restrittiva, anche i provvedimenti di blocco del sito sono generalmente idonei a raggiungere lo scopo.
Sotto tale profilo dobbiamo ricordare che nel caso in questione nessuna delle parti intervenute in causa mette in dubbio che i contenuti del sito incriminato siano illeciti e nessuno pone la questione di eventuali contenuti leciti. Questo è essenziale al fine della comprensione delle conclusioni dell'avvocato generale.
Considerando inoltre che il provider non ha rapporti contrattuali con l'autore dell'illecito "occorre valutare se possa concretizzarsi il carattere di proporzionalità attraverso una parziale o totale assunzione dell'onere delle spese da parte del titolare dei diritti". Questo perché tali misure, in relazione ai tempi che potrebbero protrarsi lungamente, possono essere anche particolarmente costose così ledendo la libertà di impresa del provider, che non commette alcun illecito.
Altrimenti finiremmo per scaricare il costo della tutela dei diritti (privatistici) dell'industria del copyright sui provider che, ovviamente, li girerebbero ai loro utenti.
Quindi, conclude Villalon, non è escluso che si debba agire contro il provider, tenendo conto della situazione concreta e dei diritti in gioco, "ma l'autore deve perseguire in giudizio direttamente, ove possibile, anzitutto i gestori del sito internet illegale i i loro provider". Questo è un punto essenziale, perché è ovvio che perseguire i provider è una comoda scappatoia essendo questi soggetti facilmente individuabili e spesso con le tasche larghe.
È evidente che i provvedimenti di web blocking sono compatibili in linea di principio con il diritto dell'Unione europea, ma ciò che risulta davvero importante è entro quali limiti tali provvedimenti possono essere emanati. Secondo Villalon che, ricordiamolo, si rifa alla precedente giurisprudenza della Corte, un provvedimento inibitorio di blocco di un sito web deve sempre contemperare equamente i diritti in gioco, quindi la libertà di informazione (degli utenti), la libertà di impresa (del provider).
Inoltre il provvedimento deve essere specifico e mirato, quindi deve indicare esattamente i contenuti da bloccare e le misure tecniche da adottare (un ordine generico di risultato non è ammissibile). Questi due aspetti sono essenziali, perché anche se nel caso in questione non ci si focalizza sulle possibili conseguenze collaterali di blocco di contenuti leciti ("non sarebbe dimostrato il fatto che il sito kino.to condivida il suo indirizzo IP con server che offrano contenuti leciti"; "nessuna delle parti coinvolte ritiene leciti i contenuti del sito internet, anzi i suoi gestori sono stati già perseguiti penalmente nella Repubblica federale di Germania"), dal tenore delle conclusioni appare ovvio che il provvedimento non deve bloccare anche contenuti leciti ("a tal proposito va assicurato che la misura di blocco riguardi effettivamente materiale all'origine della violazione e non sussista alcun rischio di bloccare l'accesso a materiale lecito").
Infine il provvedimento di blocco deve essere imposto da un tribunale o comunque deve essere prevista una specifica procedura giudiziaria di revisione.
Sotto tale ultimo aspetto risulta rilevante il riferimento ad una riserva di legge statale. Vero è che la delibera in preparazione da parte dell'Agcom per la tutela del diritto d'autore in rete prevede la possibilità di rivolgersi ad un giudice per la revisione delle decisioni dell'Autorità, ma tale possibilità è del tutto residuale, e comunque l'art. 52 della Carta dell'Unione europea prevede che "eventuali limitazioni all'esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla presente Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà". Se riconosciamo che il web blocking limita i diritti dell'individuo allora non si può ammettere che sia un'autorità amministrativa ad occuparsi di porre le norme in materia. Se a ciò aggiungiamo che Villalon fa espresso riferimento ad un "giudice", come soggetto deputato a bilanciare i diritti in gioco, le conclusioni dell'avvocato generale sembrano una pietra tombale sul regolamento Agcom.
Bisogna anche dire che non c'è nulla di davvero nuovo o sconvolgente nelle conclusioni dell'avvocato generale, trattandosi di argomentazioni che sono state già più volte espresse sia dalla Corte europea sia da altri organismi, quali l'ONU e l'OSCE con i rispettivi rapporti del 2011.
In conclusione:
- il blocco di un sito web deve essere previsto per legge;
- l'ordine di blocco deve essere una misura estrema;
- l'ordine di blocco deve essere mirato e specifico verso i contenuti illeciti;
- l'ordine di blocco deve indicare le misure tecniche di blocco;
- l'ordine di blocco non è ammissibile se c'è il concreto rischio di bloccare contenuti leciti.