La Corte di Cassazione, sezione V penale, con la sentenza n. 3674 del 1 febbraio 2011 ha respinto il ricorso del giornalista Gomez che aveva pubblicato un’inchiesta sull’Espresso riguardante presunti finanziamenti mafiosi verso un’azienda, confermando la decisione della Corte d’Appello che aveva ritenuto il reato di diffamazione prescritto, chiarendo che non poteva ritenersi sussistente l’esimente del diritto di cronaca.
Nel caso specifico il giornalista aveva aggiunto ai fatti fedelmente riportati dal processo altri fatti e dichiarazioni, anche questi fedelmente riportati. Grazie alla base fattuale il giornalista riteneva rispettati i limiti del diritto di cronaca, per cui non avrebbe dovuto ritenersi configurato il reato di diffamazione.
La Cassazione ha invece sostenuto che “rientra pure nell’esercizio del diritto di cronaca giudiziaria riferire atti di indagini e atti censori provenienti dalla pubblica autorità, ma non è consentito effettuare ricostruzioni, analisi, valutazioni tendenti ad affiancare e precedere attività di polizia e magistratura, indipendentemente dai risultati di tale attività”. Quindi la Corte ha escluso, nel caso in esame, “il corretto esercizio del diritto di cronaca, istituzionalmente riconosciuto a fini informativi di fatti già accaduti: il giornalista ha integrato le dichiarazioni della fonte conoscitiva con altri dati di riscontro, realizzando la funzione investigativa e valutativa rimessa all’esclusiva competenza dell’autorità giudiziaria”. In conclusione “il testo pubblicato non può ritenersi un’asettica riproduzione di dichiarazioni – a prescindere dalla loro riservatezza – del R………, ma un articolato discorso che, comprendendo altri dati storici, tende inequivocabilmente a sostenere la verità del contenuto di queste, a fronte di indagini in corso proprio per l’accertamento di questa verità”.
“A ciascuno il suo”, conclude la Suprema Corte, “agli inquirenti il compito di effettuare gli accertamenti, ai giudici il compito di verificarne la fondatezza, al giornalista il compito di darne notizia, nell’esercizio del diritto di informare, ma non di suggestionare, la collettività.
L’assenza di verità dei fatti narrati - finanziamenti di provenienza mafiosa all’ascendente manager dell’informazione e del trattenimento televisivo- comporta l’evidente carica diffamatoria della narrazione e la totale assenza di evidenza del corretto esercizio del diritto di cronaca giudiziaria. Il ricorso va quindi rigettato con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile”.
Questo è il ragionamento seguito dalla Corte di Cassazione con una pronuncia che si inoltra nel terreno minato del diritto di cronaca con particolare riferimento all’inchiesta giudiziaria. La sentenza sostiene che il giornalista non ha rispettato i limiti del diritto di cronaca poiché ha inserito tra le dichiarazioni del pentito altre dichiarazioni, realizzando così la funzione investigativa e valutativa che, secondo la Corte, è invece rimessa all’esclusiva competenza dell’autorità giudiziaria.
In pratica, secondo la Cassazione, il giornalista doveva limitarsi ad una asettica riproduzione delle dichiarazioni del pentito, poiché l’aggiunta di altri elementi tende a rafforzare la credibilità dello stesso. È abbastanza ovvio che in tale modo si va a svilire la funzione stessa della cronaca giudiziaria trasformandola in una mera stesura di fatti già accaduti, asserendo così che la funzione investigativa non è in alcun modo esercitabile da un giornalista.
L’interpretazione della Corte, con quell’inciso finale piuttosto suggestivo, cioè “a ciascuno il suo”, distingue, quindi, in maniera netta, le funzioni di magistratura e stampa, dando alla prima l’esclusiva dell’accertamento dei fatti, quindi della funzione investigativa, mentre la seconda viene ridotta ad un mero intermediario tra il fatto e la collettività, quasi una sorta di notaio, dovendo limitarsi a una riproduzione di eventi accaduti nel processo, in tal modo trascurando il ruolo di giornalista come è generalmente inteso.
Per cui il cronista avrebbe il diritto-dovere di narrare fatti già accaduti senza indugiare in una narrazione o valutazione, cioè non gli è consentito effettuare ricostruzioni, analisi, valutazioni tendenti ad affiancare e precedere l’attività della polizia e della magistratura. Quindi, in ultima analisi, non gli compete svolgere una funzione investigativa. In sostanza la Cassazione stabilisce con questa sentenza piuttosto dirompente che vi è una sorta di divieto generale di formulare prognosi sfavorevoli relativamente ad un procedimento giudiziario.
Come ampiamente chiarito nel corso degli anni dalla giurisprudenza della Suprema Corte, il diritto di cronaca non è una libertà assoluta proprio nel momento in cui prevale sul diritto del singolo e in particolar modo il diritto alla privacy e all’onore e al decoro, ma configura un esimente quando rispetta determinati requisiti: la verità dei fatti, l’interesse pubblico alla notizia, la continenza formale cioè una corretta e civile esposizione dei fatti.
Però, una volta rispettati questi requisiti, una ricostruzione del ruolo del giornalista come quella prospettata nella sentenza in questione ha l’effetto di comprimere non poco gli spazi di libertà che caratterizzano il diritto di informare. In particolare modo si stringe il raggio d’azione del giornalismo d’inchiesta che, per sua precisa natura, mira a controllare anche in chiave fortemente critica le verità acquisite anche per via giudiziaria. Non sono pochi i casi nei quali proprio un’inchiesta giudiziaria ha permesso di aprire o di riaprire dei casi giudiziari ormai chiusi da tempo oppure mai aperti, oppure di inchieste giudiziarie che sono state in grado di ribaltare quelle verità ufficiali asserite in sentenze da giudici. È quindi evidente l’importanza di una stampa libera ed attenta che sappia svolgere il suo ruolo che non è solo il diritto di informare finalizzato al soddisfacimento degli interessi della collettività ad essere informata al fine di esercitare correttamente la sovranità popolare, ma anche di esercitare il diritto di cronaca giudiziaria nel qual momento il giornalista svolge una sua propria libertà individuale.
È vero che l’esercizio del diritto di cronaca giudiziaria ha sempre risvolti pericolosi in quanto può facilmente trasmodare in una possibile diffamazione, ma è altrettanto vero che il giornalista ha il diritto di sviluppare un’inchiesta del tutto autonoma rispetto alle verità giudiziarie, magari anche elencando dei dati veri ai quali affianca una propria valutazione, una propria convinzione che il soggetto sia possibilmente colpevole di un reato. Ovviamente tale tipo di inchiesta giudiziaria ha una sua liceità nel momento in cui è inequivocabilmente chiaro che la convinzione del giornalista sia frutto di una ricostruzione giornalistica e non giudiziaria. Perché proprio in questo momento le due realtà devono ovviamente divergere, e non deve essere mai possibile sovrapporle ritenendo che le convinzioni del giornalista siano, invece, verità giudiziarie accertate.
Fermo restando che nel caso specifico non abbiamo contezza della documentazione e degli atti del processo, per cui le nostre valutazioni sono ovviamente generali, sembrerebbe che il giornalista abbia riportato in un’unica inchiesta giudiziaria più dati provenienti da fonti diverse, alcuni provenienti dall’inchiesta giudiziaria principale oggetto dell’articolo, ed altri provenienti da altre fonti, comunque fattuali. Il giornalista avrebbe quindi svolto una vera è propria funzione investigativa, che però, secondo la Cassazione, gli sarebbe preclusa.
Pertanto sembrerebbe che la sentenza in questione affossi letteralmente la cosiddetta inchiesta giornalistica per come è stata intesa fino ad oggi, dipingendo il giornalista come un mero notaio di ciò che accade all’interno di un processo penale.
In realtà tale ricostruzione sembra essere in contrasto con quanto asserito più volte nelle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo. Infatti, come del resto ha chiarito la Corte Costituzionale con le sentenze 348 e 349 del 2007, il novellato articolo 117, primo comma, della Costituzione fa sì che le norme contenute nei trattati internazionali debbano essere necessariamente tenute in conto nell’esercizio dell’attività giudiziaria, al punto che il giudice deve disapplicare le norme interne se in contrasto con quelle internazionali. In particolare queste ultime hanno una maggiore forza di resistenza rispetto alle leggi ordinarie proprio in quanto richiamate dalla norma costituzionale.
In tal senso quindi non può essere trascurata la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo riferibile all’articolo 10 della Convenzione dei diritti dell’uomo, il quale riconosce ad ogni individuo il diritto alla libertà di espressione ed ammette restrizioni per salvaguardare altri valori come la reputazione.
Sotto questo profilo non possiamo non ricordare che proprio la Cassazione, in applicazione dell’articolo della Convenzione richiamato e della giurisprudenza della Corte europea, annullò una sentenza di condanna per diffamazione a carico del giornalista Feltri, ritenendo che il giudice interno sia obbligato ad interpretare il diritto nazionale alla luce della giurisprudenza della Corte europea.
Quindi non possiamo esimerci dall’andare a verificare come la Corte europea valuti l’attività del giornalista.
La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che in questa particolare sentenza della Cassazione non viene mai né richiamata né citata, privilegia il diritto alla libertà di stampa proprio per assicurare affettività al diritto dei giornalisti di informare anche su notizie scottanti non provenienti da fonti ufficiali. La Corte europea ha, in diverse occasioni, sanzionato gli Stati membri condannandoli per violazione dell’articolo 10, nei casi in cui giudici interni avessero disposto una condanna per diffamazione entrando nel merito proprio delle modalità con le quali il giornalista svolge la propria funzione. La Corte di Strasburgo ha ritenuto che non spetta ai giudici nazionali sostituirsi alla stampa indicando le tecniche che giornalisti devono adottare nella redazione dei loro articoli, laddove gli articoli specificatamente presi in considerazione riferivano dati fattuali precisi pur includendo giudizi di valore con toni anche critici verso l’indagato, ed anche in tali casi la Corte europea ha sostenuto che non si poteva configurare alcuna violazione dei diritti delle parti coinvolte, proprio perché sussisteva una base fattuale sufficiente.
In conclusione, quindi, in considerazione del fatto che la Corte europea riconosce l’autonomia del giornalista, l’affermazione della Cassazione dove sostiene che non è consentito al giornalista effettuare ricostruzioni o valutazioni tendenti ad affiancare o precedere l’attività di polizia e magistratura, si può probabilmente ritenere in contrasto con l’articolo 10 della Convenzione come interpretata dalla giurisprudenza europea.
Cosa accadrebbe infatti nei casi in cui la magistratura prende una cantonata oppure semplicemente non si occupa, per un motivo o per un altro, di una vicenda con possibili profili giudiziari?
Semplicemente, volendo portare alle sue ultime conseguenze il ragionamento della Suprema Corte, un giornalista non potrebbe fare altro che confermare i pregiudizi esistenti piuttosto che eventualmente contraddirli, oppure non occuparsi proprio nella vicenda perché appunto la funzione investigativa non gli spetterebbe. Il giornalista quindi sarebbe costretto a pubblicare soltanto comunicati provenienti da fonti ufficiali non avendo alcun diritto a reperire notizie da fonti non ufficiali, oppure cercare informazioni altrove, con buona pace dell’inchiesta giudiziaria.
E se ad un orientamento del genere aggiungessimo anche una riforma dell’istituto delle intercettazioni come da proposta legislativa che ancora giace in Parlamento in attesa di eventuale approvazione, potremmo concludere che di inchieste giudiziarie non si parlerebbe quasi più.