Class action: dal danno alla beffa

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La class action  (azione di classe) è uno strumento di tutela dei cittadini presente in molti paesi, come ad esempio gli USA, ed è un tipo di azione legale condotta da uno o più soggetti di una categoria di consumatori che si rivolgono ad un giudice al fine ottenere una decisione su una controversia verso una azienda oppure il risarcimento di un presunto danno prodotto da una azienda.
Generalmente un cittadino che si va a scontrare con una azienda di grandi dimensioni, una multinazionale, si trova in ovvia difficoltà (economica soprattutto) a poter reggere una causa intentata da lui al fine di poter far valere i propri diritti, tanto che spesso accade che il cittadino rinunci a far valere il suo diritto. Per questo motivo in vari paesi sono state introdotte le azioni collettive consentendo ai cittadini di unirsi in categorie, come fossero una persona sola, per poter intentare causa ad una azienda. In questo modo i cittadini possono risparmiare sui costi dell’azione, usufruendo di un solo avvocato, ed hanno maggior forza. Questa soluzione consente notevoli risparmi anche alla collettività, in quanto, invece di avere centinaia di processi identici che impegnerebbero numerosi giudici e cancellieri con costi notevoli per la collettività, si ha un solo processo, con un solo tribunale, e una sola decisione (non vi sarebbero nemmeno contrasti di giudicati).
Questo tipo di azione è generalmente considerata un traguardo importante per un paese realmente democratico che si preoccupa dei propri cittadini.


Con la legge finanziaria per il 2008 il governo Prodi introdusse anche in Italia la disciplina delle azioni collettive risarcitorie a tutela dei consumatori, normativa inserita nell’articolo 140-bis del Codice del consumo. L’azione è stata definita “nuovo strumento generale di tutela nel quadro delle misure nazionali volte alla disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti, conformemente ai principi stabiliti dalla normativa comunitaria volti ad innalzare i livelli di tutela”. Il testo del 2008 prevede la possibilità per le associazioni dei consumatori o comitati rappresentativi di interessi collettivi di “agire a tutela degli interessi collettivi dei consumatori e degli utenti richiedendo l’accertamento del diritto al risarcimento del danno e alla restituzione delle somme spettanti ai singoli consumatori o utenti nell’ambito di rapporti giuridici relativi a contratti stipulati ai sensi dell’articolo 1342 del codice civile, ovvero in conseguenza di atti illeciti extracontrattuali, di pratiche commerciali scorrette o di comportamenti anticoncorrenziali, quando sono lesi i diritti di una pluralità di consumatori o di utenti”. Quindi si tratta di un’azione giudiziale di gruppo, attivabile da associazioni rappresentative di consumatori ed utenti nei confronti delle imprese per specifici illeciti contrattuali ed extracontrattuali, che mira ad ottenere dal giudice una pronuncia di accertamento della lesione degli interessi di una determinata categoria di persone ed il loro diritto ad un risarcimento.

Tale normativa doveva entrare in vigore a giugno del 2008, ma il governo Berlusconi entrante ha rinviato l’entrata in vigore prima a gennaio del 2009 e poi a luglio (ulteriormente rinviato a gennaio del 2010), sostenendo che così come è la legge non sarebbe adeguata. Mentre da una parte si iniziava la discussione di vari progetti di riforma della normativa, al senato, a maggio del 2009, è stato approvato un emendamento alla normativa precedente, che sostituisce appunto il vecchio testo del 2008.
Il nuovo testo definisce questo tipo di azione collettiva come “azione di classe”, e modifica, estendendola, la legittimazione ad agire.
Il testo precedente prevedeva la legittimazione ad agire in giudizio solo per associazioni e comitati, in particolare le associazioni inserite nell’elenco delle associazioni dei consumatori e degli utenti rappresentative a livello nazionale custodito presso il Ministero dello Sviluppo economico, le associazioni e i comitati che siano “adeguatamente rappresentativi” degli interessi collettivi fatti valere, secondo una valutazione che, nel silenzio della legge, dovrebbe essere compiuta direttamente dal giudice (innescando così un elemento di discrezionalità). Il nuovo testo conferisce, invece, la legittimazione anche a “ciascun componente della classe, anche mediante associazioni cui dà mandato o comitati cui partecipa”. Quindi anche il singolo cittadino potrebbe agire per la tutela degli interessi di una categoria di consumatori.

In relazione alle ipotesi per le quali è ammissibile ricorrere all’azione di classe, la formulazione precedente del testo fa riferimento ai “rapporti giuridici relativi a contratti stipulati ai sensi dell’articolo 1342 del codice civile”, cioè i contratti conclusi mediante moduli o formulari, e a tutti gli illeciti extracontrattuali che abbiano leso i diritti di una pluralità di consumatori o di utenti. Il nuovo testo, invece, fa riferimento ai “diritti contrattuali di una pluralità di consumatori e utenti che versano nei confronti di una stessa impresa in situazione identica, inclusi i diritti relativi a contratti stipulati ai sensi degli articoli 1341 e 1342 del codice civile”, e limita l’azione in caso di “diritti identici spettanti ai consumatori finali di un determinato prodotto nei confronti del relativo produttore, anche a prescindere da un diretto rapporto contrattuale”. Resta ferma l’esperibilità dell’azione in caso di pratiche commerciali scorrette e comportamenti anticoncorrenziali plurioffensivi.
Riassumendo, sono tre i settori in cui può essere applicata la nuova normativa sulle azioni collettive, e cioè:
- contratti per servizi di fornitura: per difendere i diritti contrattuali di una pluralità di consumatori che utilizzano servizi bancari, assicurativi, telefonici e, più in generale, di fornitura. In questo settore rientrano anche i servizi finanziari e si colloca il possibile profilo di responsabilità, per negligenza, dell'intermediario finanziario nel caso in cui non venivano rispettati i vincoli di informazione correttezza e trasparenza imposti dal testo unico della finanza;
- prodotti di consumo difettosi: per difendere i consumatori finali per i danni derivanti da un prodotto difettoso o pericoloso;
- pratiche commerciali scorrette: per difendere i consumatori da comportamenti anticoncorrenziali delle imprese.

La formulazione introdotta dal precedente governo prevede che la domanda giudiziale abbia ad oggetto l’accertamento del diritto al risarcimento del danno occorso ai consumatori, ed alla eventuale restituzione delle somme spettanti agli utenti. Il procedimento prevede una prima fase nella quale il giudice, se accoglie la domanda, determina i criteri di liquidazione del risarcimento per i consumatori che hanno partecipato al giudizio, ed una seconda nella quale è l’azienda a determinare concretamente la somma, sulla base dei criteri stabiliti dal giudice. In assenza di tale determinazione viene costituita dal presidente del tribunale una camera di conciliazione che determini le somme spettanti ai consumatori. La nuova normativa, invece, prevede che sia direttamente il giudice a condannare l’azienda al risarcimento di una somma, determinandone la somma medesima.

Per quanto riguarda la competenza territoriale, la normativa del 2008 prevede che le cause vengano intentate presso i tribunali del luogo dove ha sede l’impresa, mentre la nuova normativa stabilisce che la domanda vada proposta al tribunale ordinario del capoluogo di regione, però fissando dei tribunali ad hoc per alcune regioni, Torino (per la Val d’Aosta), Venezia (per il Trentino Alto-Adige e il Friuli Venezia-Giulia), Roma (per le Marche, l’Umbria, l’Abruzzo e il Molise), Napoli (per la Basilicata e la Calabria).

Esiste anche un filtro di ammissibilità della domanda, che la nuova normativa modifica eliminando l’obbligo di sentire le parti per assumere eventuali nuove informazioni. La domanda viene dichiarata inammissibile per inesistenza di un interesse collettivo, per manifesta infondatezza, per conflitto di interessi. La nuova normativa, però, introduce altre due cause di inammissibilità, cioè quando il giudice non ravvisa l’identità dei diritti individuali per la cui violazione è causa, nonché quando il proponente non appare in grado di curare adeguatamente l’interesse della classe.

Un punto di rilievo di ogni azione collettiva è la pubblicità, in quanto costituisce elemento essenziale per consentire ad altri consumatori che si trovino in situazioni analoghe, di inserirsi nel giudizio. La vecchia normativa prevede che il giudice stabilisca le modalità della pubblicità all’azione collettiva, mentre la nuova introduce anche l’obbligo da parte del giudice di fissare i termini per l’effettuazione della pubblicità, pubblicità che diviene condizione di procedibilità della domanda. La vecchia normativa prevede la possibilità di aderire all’azione fino al grado di appello, mentre la nuova pone il limite di 120 giorni dalla scadenza per l’esecuzione della pubblicità, con lo spirare del quale termine si determina l’improponibilità di ulteriori azioni di classe (ma sono ammesse ulteriori azioni individuali) per i medesimi fatti nei confronti della stessa impresa. Altre azioni proposte separatamente vengono riunite d’ufficio.
Infine, la normativa del 2008 non contiene alcuna limitazione temporale, mentre la nuova normativa prevede la possibilità di ricorrere all’azione collettiva esclusivamente per gli illeciti compiuti dopo il 30 giugno 2008. Questo confligge con i principi del codice civile, cioè che i diritti non prescritti siano comunque azionabili.

Quindi, la normativa introdotta dall’emendamento del nuovo governo pone varie limitazione all’esercizio dell’azione collettiva. Prima di tutto questo tipo di azione potrà essere iniziata solo per gli illeciti successivi al 30 giugno 2008, con ciò eliminando la possibilità di tutela relativa ai casi Parmalat, Cirio, Giacomelli e tanti altri simili.
Il problema principale riguarda l’inciso “diritti identici” che se interpretato alla lettera renderebbe di fatto impossibile qualsiasi tipo di azione collettiva. Se per diritti identici, infatti, si devono intendere diritti uguali in tutto e per tutto, ben difficilmente si potranno avere due situazioni tali da potersi definire identiche.
Altre limitazioni riguardano i beni professionali che sono esclusi, in quanto l’azione è a tutela dei soli consumatori, per cui non è azionabile per i beni acquistati da un professionista nell’esercizio della sua attività. Infine, anche se l’azione collettiva è ammessa nei confronti della Pubblica Amministrazione, non è possibile ottenere una condanna al risarcimento dei danni (quindi niente soldi) in questi casi, essendo l’azione limitata ad essere uno strumento di pressione nei confronti degli enti pubblici.

Normalmente una azione collettiva consente al giudice di applicare il cosiddetto danno punitivo. Il danno punitivo è un istituto che prevede un ulteriore danno da risarcire al cittadino nel caso in cui si riesca a provare il dolo o la colpa grave dell’azienda nell’azione che ha provocato il danno. La finalità dell’istituto viene ravvisata nell’affiancare il normale risarcimento quando quest’ultimo è ritenuto insufficiente (si pensi ad un danno di poche centinaia di euro, insignificante per una multinazionale) allo scopo di punire l’autore dell’illecito, e fungere da deterrente nei confronti di ulteriori potenziali trasgressori, ma è anche una sorta di premio per le vittime dato l’impegno profuso nell’affermare un diritto riconosciuto meritevole di tutela da parte della collettività.
La nuova normativa, introdotta con l’emendamento del maggio 2009, invece, prevede un danno punitivo al contrario, cioè se le motivazioni per l’azione collettiva vengono ritenute illegittime, i consumatori non solo dovranno sostenere le spese giudiziarie, ma anche quelle derivate dal “danno punitivo” apportato alla controparte. Mentre invece, in caso di vittoria dei consumatori, a questi spetta solo l’eventuale risarcimento e niente più.

Se consideriamo che il giudizio sull’ammissibilità può essere sospeso in attesa della delibera di una Authority (concorrenza, telecomunicazioni, energia), o dell’esito di un giudizio amministrativo, e aggiungiamo il rischio per i consumatori di rifondere le spese legali e anche di pagare un danno punitivo, ci sembra ovvio che questa normativa favorisca le grandi aziende, scoraggiando i consumatori dall’iniziare cause collettive contro di loro.