L’AgCom ha pubblicato sul suo sito lo “schema di regolamento in materia di tutela del diritto d’autore sulle reti di comunicazione elettronica”, che sarà in consultazione per altri 60 giorni.
Si può subito dire che il regolamento appare per molti versi quasi inutile, specialmente in considerazione del fatto che il ricorso all’autorità giudiziaria blocca la procedura amministrativa. In ogni caso si possono confermare quasi in toto le osservazioni già esposte sulla base del comunicato stampa, in particolare non solo le criticità evidenziate non sono state risolte nel testo della delibera, ma sembra che l’AgCom abbia evitato proprio di entrare nel merito di alcune questioni importanti, scavalcandole.
Legittimazione dell’AgCom
Passando ad una analisi più approfondita possiamo distinguere varie parti nel testo delle delibera.
La prima parte riguarda la legittimazione dei poteri che l’autorità amministrativa si attribuisce.
L’AgCom sostiene che tale legittimazione deriva dall’articolo 182 bis della legge 633 del 1941, come modificato nel 2000, che attribuisce, appunto, poteri di vigilanza all’AgCom e alla Siae, nelle rispettive materie. La norma in questione attribuisce anche poteri di ispezione, fissando l’obbligo di informare l’autorità giudiziaria in caso di accertamento di violazioni.
A tale norma si affiancano i poteri di regolazione attribuiti dall’articolo 32 bis del decreto legislativo 177 del 2005 (introdotto dal decreto Romani), il quale impone ai fornitori di servizi di media audiovisivi il rispetto dei diritti d’autore nell’esercizio della propria attività.
Ed infine vi è il decreto legislativo 70 del 2003 il quale dispone che l’autorità giudiziaria o quella amministrativa avente funzioni di vigilanza possono esigere, anche in via d’urgenza, che il prestatore, nell’esercizio delle proprie attività, impedisca o ponga fine alle violazioni commesse.
In realtà, analizzando le suddette norme si accerta che l’articolo 182 bis sopra citato assegna all’AgCom poteri esclusivamente di vigilanza, mentre il successivo articolo specifica che è l’autorità giudiziaria a dover intervenire in caso di violazioni. Insomma l’AgCom redige il verbale e lo invia alla magistratura, null’altro.
Per quanto riguarda l’articolo introdotto dal decreto Romani, è vero che esso attribuisce all’AgCom poteri regolamentari, ma anche volendo prescindere dal problema che quel decreto è attuativo di una direttiva europea nella quale di diritto d’autore non c’era alcuna traccia, per cui il decreto sarebbe andato oltre i limiti della direttiva, rimane il dato indefettibile che il decreto Romani è applicabile ai soli fornitori di servizi audiovisivi, e non a siti privati, amatoriali o social network.
Un identico ragionamento si può fare per il decreto 70 del 2003 il quale si riferisce alla responsabilità degli intermediari della comunicazione.
Insomma, nonostante il richiamo dell’AgCom, nessuna di queste norme attribuisce all’autorità Garante per le comunicazione alcun potere regolamentare o di inibizione verso soggetti privati che non siano fornitori di media audiovisivi o, al limite, se ritenessimo che il richiamo di cui agli articoli 14, 15 e 16 del decreto 70 del 2003 siano all’autorità medesima (ma è tutto da dimostrare), verso gli intermediari della comunicazione.
È quindi una sorpresa dover rileggere questi argomenti, poiché essi sono stati più volte criticati e sconfessati da autorevoli commentatori, basti ricordare la dettagliata analisi del Centro Nexa oppure richiamare le parole di Marco Scialdone, uno degli esperti della materia.
Quindi, considerando che non è possibile ritenere che l’AgCom non abbia compreso le critiche rivoltegli sul punto, non può non sorgere il dubbio che l’AgCom si preoccupi soltanto della sua legittimazione ad agire nei confronti degli intermediari della comunicazione, dei gestori dei siti, insomma delle grandi piattaforme, mentre non si preoccupa minimamente di ricercare una legittimazione verso i privati cittadini, perché probabilmente non gli interessa.
Del resto l’AgCom ha anche ribadito, lo possiamo leggere nel comunicato stampa, che non ha intenzione di agire verso l’utente finale, proprio perché, probabilmente, si rende conto dell’assenza di norme che gli conferisca un potere in tal senso.
Quindi l’azione dell’AgCom è rivolta solo ed esclusivamente nei confronti del “gestore” del sito, come si evidenzia nella parte della delibera demandata a dettagliare la procedura di rimozione, nella quale manca qualsiasi accenno ad un contraddittorio nei confronti dell’uploader, cioè di colui il quale immette il contenuto.
Il punto è che in tutta questa procedura l’unico che effettivamente ci rimette, perché si vede oscurare i suoi contenuti, è l’utente finale, non certo il gestore del sito. Ma l’AgCom pare disinteressarsi del problema, per cui tutto il discorso sulla legittimazione è un puro e semplice escamotage per scavalcare a piè pari uno dei problemi fondamentali della delibera, cioè l’assenza di un contraddittorio, e quindi di una effettiva tutela, per l’utente finale, cioè il soggetto debole.
Promozione di contenuti legali
La seconda parte della delibera riguarda le iniziative di promozione di offerta legale di contenuti digitali. In particolare l’AgCom ricorda che in tale materia non ha poteri effettivi, per cui il suo ruolo al massimo può essere di moral suasion, al fine di incentivare la diffusione di contenuti digitali legali con maggiore fruibilità da parte degli utenti, perché questo è uno dei modi principali col quale combattere la pirateria.
Ovviamente l’AgCom non può spingersi molto oltre in tale materia, in quanto inciderebbe sull’autonomia contrattuale delle parti, ma di certo una attività di promozione dei contenuti legali e nel contempo di dissuasione nell’introduzione di barriere all’interoperabilità, ad esempio tramite l’utilizzo di formati proprietari col fine di creare posizioni dominanti, deve sicuramente ritenersi positiva.
Questa parte della delibera ci interessa sicuramente meno, ma conviene porvi un po’ d’attenzione, perché in essa la stessa AgCom, riportando le posizioni dei soggetti partecipanti alla consultazione, rivela quali sono gli interessi che si muovono dietro questo mercato.
Ad esempio è interessante notare l’opinione di chi “non ravvisa nella disponibilità di contenuto legale la risposta per diminuire la pirateria, auspicando l’intervento delle autorità italiane affinché l’apertura del mercato al contenuto legale si ottenga principalmente attraverso la lotta alla pervasiva messa a disposizione in rete di prodotti pirata, particolarmente alta nel settore dei videogiochi”, oppure di chi ritiene che “non sono necessarie particolari misure per l'apertura del mercato, in quanto, ridotta l'illegalità, sarà il mercato stesso che si orienterà verso la forma e la piattaforma, fisica o digitale, che più soddisferà le esigenze di fruizione”.
Si tratta della stanca riproposizione di argomenti stantii che cercano di prospettare solo misure repressive al fine ovvio di indurre la classica scarsità di risorse sul mercato che poi consentirebbe di aumentare artificiosamente il prezzo dei prodotti.
Per fortuna sotto questa prospettiva l’AgCom appare propugnatrice di idee decisamente più aperte, e reputa importante un’azione di sviluppo dell’offerta legale, ricordando anche la zavorra in tale ottica del digital divide che pone il nostro paese tra gli ultimi nella classifica dell’accesso ad internet, con solo il 59% delle famiglie che ha a disposizione un accesso alla rete, e il 48% degli utenti che usano la rete, una delle percentuali più basse d’Europa.
Sperando, però, che il tutto poi non si risolva, come pure ha proposto qualcuno, nella realizzazione di campagne pubblicitarie che evidenzino i rischi della pirateria, condotte a spese delle finanze pubbliche.
Procedura di rimozione
La parte successiva, dove si dettaglia la procedura di rimozione dei contenuti illeciti, è molto interessante, ma al contempo deludente, poiché in realtà non si ravvisano novità di spicco rispetto a quanto già detto nei mesi scorsi.
La procedura rimane sostanzialmente divisa in due fasi, laddove la prima si svolge senza alcun apporto dell’AgCom, e nel contempo è configurata come condizione di procedibilità. Insomma il titolare dei diritti deve rivolgersi in prima battuta al gestore del sito o al fornitore di servizi, chiedendo la rimozione del contenuto. Ed ancora una volta si deve evidenziare che nella fumosità della descrizione della procedura manca una parola chiara su chi siano i soggetti tra i quali deve essere instaurato il contraddittorio.
È vero che si prevede la possibilità per l’uploader, l’utente finale, di opporsi alla rimozione del contenuto, ma non pare che il contraddittorio sia previsto anche con detto soggetto, il quale ovviamente avrà la possibilità di opporsi se viene a conoscenza della rimozione. In ogni caso i tempi risicati difficilmente consentiranno al gestore del sito di sentire le ragioni dell’utente finale, che poi, a differenza del gestore, è l’unico che è a conoscenza di eventuali motivi che rendono lecito l’uso di quel particolare contenuto.
Di certo il gestore del sito o il fornitore di servizi poco o nulla sapranno di quel contenuto e dei diritti ad esso collegati, e di sicuro non potranno attribuire correttamente la titolarità dei suddetti diritti, per cui è possibile che il gestore finirà per rimuovere più o meno tutti i contenuti segnalati.
Nel caso in cui il contenuto non sia rimosso dal gestore, il titolare dei diritti potrà ricorrere all’AgCom, nello stesso modo potrà agire il soggetto che ha caricato il contenuto, se questo è stato rimosso. Questa è la seconda fase, al termine della quale l’AgCom potrà adottare un ordine di rimozione selettivo del contenuto, quindi limitato solo ai contenuti presunti illeciti e non ad un intero sito. E questo è un punto positivo.
L’ordine in questione, precisa l’autorità, non da luogo ad esecuzione forzata, ma solo all’applicazione di multe in caso di inottemperanza, laddove le multe, ai sensi dell’art. 1 comma 31 della legge 249/97, vanno da 10.000 fino a 250.000 euro. E’ piuttosto evidente che l’entità delle sanzioni, che colpirebbero i gestori dei siti, consiglieranno questi ultimi di rimuovere i contenuti medesimi.
È anche vero che l’uploader ha la possibilità di ricorrere al giudice, nel qual caso la procedura amministrativa si blocca, ma è probabile che l’uploader venga a conoscenza della procedura proprio al momento della rimozione del contenuto, mentre il gestore del sito non ha, in genere, alcun interesse ad opporsi alla rimozione. Per quale motivo dovrebbe proteggere un utente privato cittadino in una contesa con una grande azienda?
Le norme dovrebbero riequilibrare le posizioni in gioco, consentendo al soggetto debole di potersi contrapporre al soggetto forte in posizione di uguaglianza. Qui invece abbiamo una procedura nella quale la prima fase viene giocata tra grandi aziende e fornitori di hosting o intermediari della comunicazione (il gestore del sito, indicato genericamente), laddove c’è il forte rischio che il privato venga schiacciato tra di loro.
Insomma, una sorta di privatizzazione della valutazione di un illecito, che viene demandato ad una contesa tra il gestore del sito e il titolare del diritti, dove l’unica possibilità per il privato cittadino è rivolgersi al giudice per bloccare la procedura ed ottenere una tutela effettiva. Purtroppo, come ben sappiamo, il ricorso al giudice è costoso, ed è difficile credere che qualcuno si avvii su questa strada per impedire la rimozione di contenuti realizzati al solo fine di condivisione tra i propri contatti.
In sostanza con questa delibera l’AgCom non fa altro che sussumere nell’ambito del suo regolamento le prassi contrattuali già trasfuse nei termini d’uso dei principali social network, le quali prassi, specialmente in Italia e specialmente a seguito di recenti pronunce giurisprudenziali, si sono sempre più orientate nel senso di rimuovere i contenuti quando un soggetto forte lo richiede, al fine di evitare danni ulteriori.
È piuttosto facile prevedere, quindi, che la maggior parte delle segnalazioni si chiuderanno nella prima fase con la rimozione dei contenuti, e che ben poco finirà tra le mani dell’AgCom o della magistratura, e non perché detti contenuti sono inequivocabilmente illeciti, ma solo per convenienza economica delle grandi piattaforme che, come del resto è anche comprensibile, preferiranno vedersela casomai con un piccolo privato cittadino, piuttosto che scontrarsi con una grande azienda.
Quindi il punto fondamentale della vicenda si sposta sull’altro versante, quello della valutazione dell’illiceità. Perché, bisogna ricordarlo, non si tratta solo di analizzare quali contenuti sono soggetti a diritti d’autore altrui, ma piuttosto di contemperare le esigenze e i diritti di due parti in causa, in quanto esistono delle specifiche eccezioni al diritto d’autore che in alcuni casi permettono l’uso di contenuti protetti senza il consenso del titolare del diritto.
Sotto questo profilo è sintomatico l’inciso della delibera dove si sostiene che “la verifica dell’attività di un sito come intesa unicamente a favorire lo scambio non autorizzato di materiale protetto da copyright”, “ potrebbe essere effettuata anche attraverso l’identificazione di una serie di figure sintomatiche, quali ad esempio la lingua dei contenuti caricati sul sito o dei banner pubblicitari da esso ospitati o anche l’individuazione di quelle attività finalizzate a migliorare sensibilmente la visibilità del sito stesso”. Insomma parrebbe che l’illiceità di un contenuto potrebbe essere rilevata anche per mere presunzioni.
Fermo restando che un contenuto dovrebbe essere ritenuto illecito solo quando dichiarato tale da un giudice, il riferimento all’istituto del fair use, di derivazione americana, è decisamente apprezzabile, in quanto forse per la prima volta se ne parla diffusamente facendo acquistare maggiore visibilità a quelle eccezioni al diritto d’autore che, pur presenti nel nostro ordinamento, raramente vengono fatte oggetto di discussioni con le grandi aziende.
L’AgCom giustamente fa presente che il fair use sussiste nel momento in cui sono presenti alcuni indispensabili requisiti, e cioè: “1) l'oggetto dell'uso e la natura di questo, in particolare se commerciale ovvero didattico e senza scopo lucrativo, 2) la natura dell'opera protetta, 3) la quantità e l'importanza della parte utilizzata in relazione all'opera protetta nel suo insieme e 4) le conseguenze derivanti dall’uso sul mercato potenziale o sul valore dell'opera protetta”.
Di seguito ricorda che tali eccezioni al diritto d’autore sono già previste dagli articoli 65 e 70 della legge 633 del 1941, e dovranno necessariamente essere tenute presenti nell’attività istruttoria dell’autorità, oltre ovviamente alle norme in materia di libertà di esercizio del diritto di cronaca, commento e discussione.
Purtroppo, oltre al già discusso problema che il contenuto di quelle norme non è sufficientemente dettagliato, per cui al momento non è pronosticabile a priori come sarà definito un sito commerciale oppure didattico, od in particolare quanto deve essere piccola la “parte” dell’opera per giustificare il fair use, il problema fondamentale è che tale istituto difficilmente potrà essere applicato nella prima fase della procedura di rimozione, perché i titolari dei diritti non hanno, ovviamente, interesse ad invocarlo, mentre i gestori probabilmente non sapranno applicarlo correttamente, per cui non lo invocheranno per evitare conseguenze a proprio carico.
Il risultato sarà, come detto sopra, che nella prima fase si chiederà, e probabilmente si otterrà, l’eliminazione di ogni contenuto che contiene anche parti di opera altrui, anche se quel contenuto è giustificato da un uso corretto e leale, appunto fair use.
E semmai si dovesse approdare alla seconda fase, sembra più che altro che l’AgCom, o più esattamente la Direzione dell’autorità, si debba orientare sulla base di parametri autonomamente individuati dalla stessa autorità, piuttosto che sulla base della giurisprudenza in materia di eccezioni al diritto d’autore, giurisprudenza che, comunque vale la pena di ricordare, in genere è piuttosto restrittiva in materia.
Per fortuna alcuni punti positivi ci sono, cioè è stata espunta la possibilità di chiedere la rimozione dei contenuti illegali destinati al pubblico italiano ma localizzati su siti esteri. Verso tali siti si opererà inviando una serie di avvertimenti, un richiamo e poi una richiesta di rimozione, a seguito dell’inottemperanza alla quale l’AgCom si limiterà ad una segnalazione alla magistratura per i provvedimenti di competenza.
Appare possibile, in tal caso, che si configuri una disparità tra i siti italiani e quelli esteri, per cui i secondi sarebbero favoriti in quanto sfuggirebbero all’ordine di rimozione dell’AgCom, ordine presidiato da severe sanzioni.
Il punto più importante, comunque, rimane la riduzione dell’intera procedura amministrativa ad una mera alternativa al ricorso giurisdizionale, invece che sostitutiva come era nel testo precedente, per cui adire la via giudiziaria bloccherà la procedura amministrativa. È ovvio che se tale circostanza è positiva rispetto al primo testo, a ben pensarci non è un effettivo vantaggio per l’uploader, prima di tutto perché sussiste il problema del contraddittorio, per cui egli potrebbe venire a conoscenza della procedura solo a rimozione già avvenuta (e quindi non ci sarebbe più alcuna procedura da bloccare), e poi soprattutto perché il costo e i tempi di un ricorso alla magistratura sono tali da scoraggiare troppi soggetti privati.
In conclusione l'effetto principale della regolamentazione è stato proprio quello di invertire l’onere ed il costo di avvio della procedura giudiziaria. Prima era il produttore, la grande azienda, che per ottenere una rimozione di un contenuto, doveva spendere soldi e tempo dinanzi ad un magistrato, chiamando in causa il gestore del sito e/o il privato, domani sarà invece il privato a dover avviare la procedura per difendersi. Insomma, prima ti rimuoviamo il contenuto, poi se hai tempo, voglia e denaro, vai da un magistrato e ci provi che invece era del tutto legittimo!
L’impressione finale, quindi, è che la delibera in questione abbia ben poco contenuto effettivo, ma contenga molte chiacchiere inutili, quasi una cortina di fumo per nascondere qualcosa. È decisamente positivo il fatto che si siano modificate alcune delle intenzioni eccessivamente repressive del primo testo, ma in tal modo la delibera si è svuotata finendo per essere un semplice esercizio riepilogativo di tanti buoni propositi, al punto che viene da chiedersi il senso di tutto ciò.
Quello che rimane, quindi, è una procedura di eliminazione dei contenuti illeciti sostanzialmente demandata alla regolamentazione contrattuale tra la piattaforma e l’utente privato, nella quale l’AgCom entrerà raramente, visto che è facile ipotizzare che nella maggioranza dei casi nessuno impugnerà la rimozione del gestore.
Resta, perciò, l’inversione del “costo” della richiesta di eliminazione dei contenuti, prima era l’industria a dover avviare la procedura giudiziaria, domani sarà il privato che probabilmente dovrà farlo se vorrà far valere i propri diritti. Ricordiamoci che una delle argomentazioni principali che l’industria dell’intrattenimento ha sempre svolto in materia di pirateria è stata sempre caratterizzata da un palese fastidio di doversi rivolgere alla magistratura per ottenere la tutela dei loro diritti, perché è una procedura lunga, perché è costosa in termini anche di tempo, e perché ha anche la pessima caratteristica di potersi concludere in senso negativo.
Sotto questo profilo la delibera non sembra del tutto inutile. Si era partiti per ottenere una delega all’autorità amministrativa di regolamentazione e vigilanza della rete internet, e si è finito per demandare questo controllo ai privati. Tra grandi aziende, forse, si metteranno d’accordo, privando il cittadino dei suoi diritti. In un certo qual senso si potrebbe anche dire che questo obiettivo è stato centrato.