La recente sentenza n. 37105 della Corte di Cassazione, emessa in data 23 settembre del 2009, si è occupata per la prima volta di diffamazione nei reality show.
Il fatto riguarda un concorrente di un reality, il quale apostrofa un altro concorrente come “pedofilo”, a causa delle attenzioni da quest’ultimo rivolte ad una concorrente molto più giovane di lui, anche se comunque maggiorenne.
Il concorrente appellato come “pedofilo”, sentendosi insultato, si rivolge alla giustizia, chiedendo altresì un risarcimento del danno all’immagine, rivolgendo la sua azione non solo verso il concorrente avversario, ma anche verso la struttura organizzativa, che aveva la funzione di controllare il programma e quindi impedire l’accadere di certi episodi.
La Corte di Cassazione ha confermato la sentenza della Corte di Appello, a sua volta confermativa della sentenza del Tribunale di Rieti, e ha quindi escluso che il comportamento del concorrente potesse essere ritenuto diffamazione.
La Cassazione precisa che, affinché ricorrano gli estremi del reato di diffamazione, previsto e punito dall’articolo 595 del codice penale, è necessaria l’offesa verbale. Quest’ultima, prosegue la Corte, deve essere valutata avendo riguarda al contesto nel quale essa è inserita, cioè è necessario rapportare l’espressione usata al luogo e ai tempi nei quali tale espressione è usata.
Il dialogo in questione, sostiene la Corte, “si era svolto nel corso di un programma televisivo la cui caratteristica era quella di sollecitare il contrasto verbale tra i partecipanti, secondo uno schema oggi abusato, ma che anche a quell’epoca non poteva sfuggire ai soggetti direttamente coinvolti”.
Infatti, il reality show è Survivor, andato in onda nel 2001.
In questo specifico contesto, continua la Corte, l’espressione “pedofilo” doveva essere ritenuta scherzosa, come evidenziato dal fatto che il riferimento era alle attenzioni rivolte ad una donna più giovane ma sicuramente maggiorenne.
Aggiunge la Corte che gli sfottò subiti dal concorrente, dopo il suo ritorno a casa, sono da ascrivere più che altro alla notorietà acquisita volontariamente, per aver partecipato al programma.
Esclusa, quindi, la portata offensiva dell’espressione usata, viene ritenuta irrilevante anche la condotta del responsabile della trasmissione che ha montato la scena senza tagliare quella parte.
La sentenza in questione ha suscitato qualche polemica, in quanto si è letto in essa l’affermazione che alcune trasmissioni televisive, i reality show appunto, siano da considerare zone franche, trasmissioni fatte per scatenare litigi e risse, e di conseguenza in esse tutto sarebbe lecito.
Essendo il contesto naturalmente rissoso, consapevolmente realizzato per scatenare contrasti, chi volontariamente partecipa non può dolersi delle conseguenze della sua partecipazione. E, pare leggere nella sentenza, la notorietà giustificherebbe l’insulto.
In realtà è pacifico che un’ingiuria pronunciata scherzosamente, oppure una che appare manifestamente infondata, come è stata ritenuta quella in discussione, non è in grado di mettere in pericolo o pregiudicare l’onore e la reputazione altrui. Quindi, in tale prospettiva la sentenza della Corte può essere avallata.
Però, non appare convincente il ragionamento della Corte quando dipinge i reality show come programmi dove, a causa del fatto che sono realizzati per scatenare contrasti anche forti, le leggi rimangano sospese, quasi come se fossero una sorta di mondo separato da quello reale.
La Cassazione vede la partecipazione ai reality come una sorta di contratto dispositivo del diritto alla reputazione, con il quale i concorrenti sospendono la propria tutela, partecipando volontariamente ad una attività pericolosa, e pertanto ne devono accettare le conseguenze.
In realtà il consenso prestato dai concorrenti non può ritenersi esteso anche ad episodi lesivi della propria dignità di persona, né può ritenersi che vi sia una tacita accettazione delle altrui ingiurie e aggressioni verbali.
Esistono sempre degli obblighi di protezione della persona che gravano sui responsabili della trasmissione, come ad esempio gli obblighi in materia di privacy, che esigono l’interdizione dalla messa in onda di fatti che ledono la dignità della persona. E, in ogni caso, non si può ritenere che la televisione sia una realtà autonoma dove le normali regole giuridiche siano sospese.
In conclusione, pare di essere di fronte all’ammissione che la volgarità è cosa connaturata alla televisione, o perlomeno a uno specifico formato della televisione.