Aggiornamento: il 18 dicembre 2013 la Corte di Cassazione ha confermato l'assoluzione per i tre dirigenti di Google.
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Il 21 dicembre 2012 la Corte di Appello di Milano, ribaltando la sentenza del giudice di primo grado, assolve 3 dirigenti di Google in relazione alla pubblicazione del video di un disabile, "perché il fatto non sussiste". Le motivazioni sono state depositate il 27 febbraio 2013. Della vicenda ce ne siamo già occupati, descrivendo i fatti e commentando la sentenza di condanna.
La Corte di Appello conferma l'assoluzione, già avuta in primo grado, dei dirigenti di Google per il reato di diffamazione, affermando che non esiste nel nostro ordinamento una posizione di garanzia in capo ad un hosting o content provider che lo obblighi ad impedire l'evento.
La posizione di garanzia non può nemmeno evincersi dalle norme in materia di stampa, trattandosi di situazioni completamente diverse e quindi non apparentabili per analogia. In tal modo la Corte ha anche ribadito che internet e stampa non possono essere parificate.
A ciò aggiunge che un tale controllo preventivo non è concretamente possibile, o quanto meno non lo era alla data del fatto. L'obbligo di impedire l'evento diffamatorio, infatti, imporrebbe al gestore del sito un filtro preventivo su tutti i dati immessi in rete, che finirebbe per alterare le sue funzionalità, ed è quindi un comportamento inesigibile. La Corte ricorda anche che un obbligo del genere risulterebbe in contrasto con la normativa europea e con le pronunce della Corte europea, dove queste ultime hanno sancito che un filtraggio generalizzato e preventivo dei contenuti immessi online non è previsto, non può essere imposto ai provider, e deve ritenersi illecito nel momento in cui c'è il concreto rischio di blocco di contenuti leciti.
Questa posizione del giudice d'appello viene richiamata anche in relazione al secondo capo di imputazione, la violazione dell'art. 167 codice privacy, per il quale la Corte, in riforma della sentenza di primo grado, perviene all'assoluzione degli imputati.
Il giudice d'appello, quindi, esclude un qualsiasi obbligo di controllo preventivo dei contenuti immessi in rete, per l'impossibilità concreta del controllo dell'enorme flusso di dati, e perché in contrasto con la normativa europea. Importante il passo nel quale la Corte sostiene che "demandare a un internet provider un dovere-potere di verifica preventiva appare una scelta da valutare con particolare attenzione in quanto non scevra da rischi, poiché potrebbe finire per collidere contro forme di libera manifestazione del pensiero", in tal modo riallacciandosi alle sentenze della Corte europea citate.
In primo grado i 3 dirigenti erano stati condannati per violazione della normativa sulla privacy, in particolare dell'art. 167 per il trattamento illecito di dati personali (sensibili nel caso specifico) in presenza di un nocumento per l'interessato (il disabile). Però il giudice di primo grado, ritenendo inesigibile un controllo preventivo di tutti i dati, giunse alla condanna degli imputati non perché li avevano illecitamente trattati, ma per non aver fornito un'adeguata informativa all'uploader nel momento dell'immissione del video, con ciò accettando il rischio concreto di inserimento e divulgazione di dati anche sensibili, per uno specifico interesse economico di Google a monetizzare il più possibile i dati immessi.
Ebbene, la Corte fa notare l'incongruenza della scelta operata, in quanto l'obbligo di informativa è previsto dall'art. 13 del codice privacy, nemmeno richiamato nel 167, norma a condotta tipizzata. Pertanto, asserisce la Corte, "quanto sostenuto in sentenza, anche se di buon senso non si ritiene possa essere condiviso".
Il giudice d'appello, quindi, rigetta la tesi che chiunque maneggi dei dati sia da considerasi il titolare del trattamento (controller) dei dati medesimi, o quanto meno il responsabile, in quanto "trattare un video non può significare trattare il singolo dato contenuto, conferendo ad esso finalità autonome e concorrenti con quelle perseguite da chi quel video realizzava".
In questa prospettiva, quindi, toccava al soggetto che ha immesso il video su Google Video acquisire il consenso dal ragazzo disabile, dovendo Google Video l'opportuna informativa al primo e non al secondo, quindi titolare del trattamento è chi provvede alla raccolta dei dati e materialmente li immette in rete, non certo il provider che fornisce solo gli strumenti per detta immissione, che diventa un mero processor (incaricato). Paradossalmente questo è quanto aveva sostenuto anche il giudice di primo grado nel momento in cui non riteneva punibile chi raccoglie o diffonde dati che in buona può considerare siano stati raccolti da altri, appunto perché sarebbe impossibile pretendere che un provider possa verificare singolarmente l'enorme quantità di video immessi in rete. Ed è evidente che non è possibile accorgersi della presenza di dati sensibili nel video per il quale è causa senza che si abbia un controllo di un operatore umano. Un passaggio importante perché nega, in relazione ai dati per i quali manca la consapevolezza, la titolarità del trattamento al soggetto che pure esercita i poteri per tale qualificazione (assunzione di decisioni relative alla finalità del trattamento a fini pubblicitari). Quindi, come stabilisce il decreto legislativo 70 del 2003, il prestatore non è responsabile delle informazioni memorizzate a meno che non si provi che sia al corrente della loro illiceità e non agisca immediatamente per rimuoverle.
Infine, il giudice d'appello ritiene insussistente l'elemento soggettivo (dolo specifico) del reato contestato (167) che dal giudice di primo grado viene confuso con il fine di profitto costituito dall'attività commerciale, lecita, dell'azienda coinvolta.
Si tratta di una sentenza importante che riforma una pronuncia che aveva lasciato fin troppi dubbi fin da subito. Poiché stiamo parlando del "governo di internet" (parole della Corte), la chiarezza in materia è d'obbligo. Ed è fondamentale capire che "quella regola, che prevede l'irresponsabilità dell'intermediario della comunicazione non è un baco di sistema, un vuoto normativo nella "prateria senza regole di internet" -come scrisse il Giudice che condannò in primo grado- ma il corretto equilibrio di diritti fondamentali che sulla rete hanno nuove declinazioni: per difendere un futuro potenzialmente straordinario", per dirla con le parole di Carlo Blengino.
Non si può, quindi, non rimanere con l'amaro in bocca constatando che questa sentenza giunge a 6 anni dal fatto, evento accaduto quando Facebook muoveva ancora i primi passi e Twitter neppure esisteva. C'è da chiedersi come è possibile che gli investitori esteri possano fidarsi di un paese dal diritto così incerto e dai processi così intollerabilmente lunghi.