Con un post del 14 dicembre sul suo blog ufficiale, Google annuncia la pubblicazione della decisione del tribunale di Roma, sezione IX, in merito all’ennesima causa intentata da RTI, cioè Mediaset, nei suoi confronti.
Nel caso specifico, alcuni utenti hanno sfruttato la piattaforma Blogger, di Google, per immettere dei contenuti in streaming, cioè partite di calcio normalmente visibili solo tramite abbonamento a pagamento Mediaset Premium. Tali partite, quindi, erano nella titolarità di Mediaset, che ha deciso di far valere i suoi diritti d’autore, chiedendo la rimozione dei contenuti.
A seguito della comunicazione di Mediaset a Google, il sito “calciolink” venne immediatamente oscurato, ma Mediaset ha comunque deciso di citare in giudizio Google sostenendo che l’azienda americana deve intendersi responsabile (per omissione) della violazione del diritto d’autore, in quanto “aveva consentito l’illecita riproduzione, trasmissione, comunicazione al pubblico dei prodotti audiovisivi di titolarità di RTI”, così chiedendo che l’azienda americana adottasse delle misure preventive per evitare il ripetersi di episodi simili.
La società di servizi Google si è rifiutata di predisporre un sistema di filtraggio delle comunicazioni elettroniche, contestando anche la sua responsabilità in merito alla diffusione dei contenuti illeciti.
Il tribunale di Roma si è espresso rigettando le richieste di Mediaset ed accogliendo la tesi che Google si comporta da mero hosting, e quindi rispetta integralmente la direttiva ecommerce europea, trasfusa nel decreto legge 70 del 2003.
Secondo tale direttiva, infatti, il fornitore di servizi di hosting non è responsabile dei contenuti presenti sui suoi server se non da origine alla trasmissione, non seleziona i destinatari e non modifica i contenuti, e non ha alcun obbligo di controllo preventivo di tali contenuti, come prescritto dall’articolo 17 del decreto citato. I soli obblighi del prestatore sono di informare l’autorità giudiziaria, qualora sia a conoscenza di presunte attività illecite esercitate tramite i suoi servizi, e di fornire, a richiesta dell’autorità, le informazioni atte ad identificare il soggetto che commette illeciti.
Il tribunale chiarisce che un monitoraggio in tempo reale dei contenuti immessi dagli utenti al fine di verificare eventuali violazioni del diritto d’autore, oltre ad essere eccessivamente oneroso sia in termini tecnici che per il costo, entra in conflitto con la normativa europea che non prevede, appunto, alcun obbligo di sorveglianza. Inoltre, la tutela dei titolari dei diritti deve sempre essere posta in bilanciamento con i diritti degli utenti e delle stesse aziende fornitrici di servizi online, in particolare la libertà di manifestazione del pensiero, la libertà di informazione, la libera circolazione dei servizi.
Per cui, l’inibitoria non può avere ad oggetto contenuti futuri, ma soltanto contenuti già presenti sulla rete.
Del resto, si precisa nell’ordinanza, il potenziale contrasto tra la normativa in materia di responsabilità dei provider e quella sul rispetto dei diritti della proprietà intellettuale (direttiva 2004/48/CE, cosiddetta “enforcement”, attuata in Italia con d. lgs. 16 marzo 2006 n. 140) è risolta direttamente dalla direttiva enforcement, che, modificando l’art. 156 della legge 22 aprile 1941 n. 633 (Protezione del diritto d'autore e di altri diritti connessi al suo esercizio), dopo aver sancito la possibilità per i titolari dei diritti di ottenere inibitorie per impedire violazioni dei loro diritti, chiarisce al comma 2 che “sono fatte salve le disposizioni di cui al decreto legislativo 9 aprile 2003, n. 70”.
Si tratta di una decisione notevolmente importante perché pone un punto fermo sulla diatriba che si svolge da lungo tempo sulla possibilità di utilizzare i provider come controllori della rete, imponendo loro degli obblighi di monitoraggio in tempo reale dei contenuti immessi dagli utenti, così, del resto, scaricando sui provider il costo della tutela dell’industria dell’intrattenimento.
Il tribunale sentenzia che i provider, invece, non possono in alcun modo svolgere, a mezzo di filtri o altri strumenti, il ruolo di “censori” della navigazione e delle attività degli utenti in rete, ed è proprio quanto emerge dalle recenti posizioni prese a livello comunitario.
Infatti, lo stesso tribunale di Roma ha fatto riferimento alla recente sentenza della Corte di Giustizia europea, caso Sabam contro Scarlet, che ha posto due punti fermi: un provvedimento giudiziario che ordini ad un fornitore di servizi online di predisporre, a sue spese, un servizio di filtraggio preventivo ed illimitato nel tempo delle comunicazioni elettroniche che passano sui suoi server deve ritenersi in contrasto col diritto comunitario; inoltre, il copyright non ha rango superiore ai diritti degli utenti, come la libertà di informazione e di manifestazione del pensiero, e della libertà di impresa, per cui ogni limitazione deve susseguire ad un corretto bilanciamento tra i diritti in discussione.