Il 30 aprile l'R Street Institute, un think tank specializzato in ricerche politiche, ha pubblicato un'interessatissimo studio sul copyright.
L'autore dello studio, Derek Khanna, è già noto per aver scritto nel 2012 un rapporto sul copyright che fece molto scalpore. Quel documento, scritto per conto della Commissione Studi dei Repubblicani della Camera degli USA, sosteneva che oggi il copyright non ha più lo scopo di compensare l'autore per il suo sforzo creativo, quanto piuttosto la funzione di massimizzare i profitti delle aziende all'interno di un regime di monopolio imposto dal governo stesso. Lo studio provocò forti proteste da parte delle lobby al punto che venne rimosso dal sito della Commissione Studi dopo appena 24 ore, e l'autore fu licenziato.
Khanna ha comunque continuato ad occuparsi della materia, e il suo ultimo scritto, dall'illuminante titolo "Guarding against abuse: Restoring constitutional copyright", prende spunto dal documento del 2012, approfondendone numerosi aspetti.
Nello studio si auspica un ritorno ai principi originari sui quali si basava la normativa in materia di copyright, sostenendo che la continua estensione della durata del copyright non fa altro che impoverire la società e la sua cultura.
La Suprema Corte (Feist Publications, Inc. v. Rural Telephone Service Co.), ricorda Khanna, è stata molto chiara nel precisare che la funzione del copyright è di realizzare un bilanciamento tra la necessità di remunerare gli autori e il pubblico interesse alla diffusione della cultura. Ma lo scopo principale del copyright è di promuovere il progresso della scienza e delle arti. Il copyright non è altro che una privativa, un monopolio concesso dallo Stato per consentire una remunerazione degli autori, perché in sua assenza non vi sarebbe incentivo alla creatività e all'innovazione, ma occorre che tale privativa non sia eccessiva.
Ed è strano che proprio nell'età moderna, nella quale i monopoli sono osteggiati e numerose leggi sono emanate per impedirne la nascita e regolamentarne gli abusi, gli Stati tutelino eccessivamente il copyright estendendone continuamente i limiti temporali. Attualmente le legislazioni tutelano il copyright fino a 70 anni dopo la morte dell'autore (life+70), quando inizialmente la tutela durava solo 14 anni più una eventuale estensione di altri 14 anni.
È evidente che la continua estensione della tutela del copyright è la conseguenza delle perpetue richieste delle lobby industriali, al fine di massimizzare i profitti. Le leggi richieste dall'industria sono supportate da studi basati su ipotesi, speculazioni e predizioni che in genere vengono smentite dalla realtà dei fatti.
Ad esempio, quando venne introdotto il videoregistratore, l'industria dei contenuti sostenne che avrebbe avuto lo stesso effetto dello strangolatore di Boston su una donna a casa da sola: il VCR avrebbe ucciso i produttori, gli artisti ed un'intera industria. Per fortuna nel 1984 la Corte Suprema americana rigettò la richiesta dell'MPAA di mettere al bando il videoregistratore.
Solo due anni dopo i profitti derivanti dalle videocassette raggiunsero i 4,34 miliardi, facendo guadagnare all'industria del copyright cifre mai viste prime.
È difficile, quindi, comprendere come mai il legislatore prenda in considerazione le argomentazioni di un'industria le cui previsioni economiche sono spesso clamorosamente sballate.
Secondo Khanna, ci sono evidenti prove che l'eccessiva durata della tutela del copyright più che incentivare l'innovazione e la creatività, la inaridisce.
Questo perché l'innovazione e la creatività si basano moltissimo sulle opere precedenti, come avevano ben compreso Mark Twain ("tutte le idee sono di seconda mano") e Steve Jobs ("creatività è solo la capacità di connettere le cose").
Purtroppo, oggi moltissime opere di fatto non entrano nel pubblico dominio per la continua estensione del copyright, quindi non potranno essere riutilizzate per creare nuove opere, per creare cultura, per innovare.
Ci sono fin troppe opere che rimangono quasi indefinitamente nelle mani dell'industria, come la canzone Happy birthday to you, scritta nel 1983 e che entrerà nel pubblico dominio solo nel 2030 (2016 per l'Unione Europea), ovviamente se nel frattempo non interverrà una nuova norma di estensione della tutela. Oppure il famoso discorso di Martin Luther King, I have a dream, che dovrebbe essere di ispirazione per le future generazioni, ma purtroppo e raramente visto in televisione perché i diritti sono ristretti fino al 2038.
Ancora, possiamo ricordare le opere orfane, cioè quelle opere per le quali non sono conosciuti gli autori e che quindi non possono essere utilizzate perché non si sa a chi chiedere il permesso.
Per non parlare delle difficoltà che ha chi vuole realizzare degli archivi digitali al fine di preservare il sapere. Ne ha fatto le spese Google, che ha dovuto difendersi in tribunale per 8 anni.
E non dobbiamo dimenticare che le stesse aziende che oggi invocano una maggiore protezione delle loro opere, e paventano danni catastrofici per colpa della pirateria, in realtà sono nate proprio grazie al pubblico dominio.
L'esempio più eclatante è la Disney, che negli anni ha saccheggiato il pubblico dominio ripresentando (opere derivate, quindi) vecchie storie tratte dalle opere dei fratelli Grimm (Biancaneve, Hansel e Gretel, Cappuccetto Rosso), dalla Bibbia, dalle opere di Shakespeare, dalle leggende arturiane, dai miti greci, dalle favole di Esopo, dalle leggende cinesi (Mulan). Di contro nessuna della "opere" Disney è mai entrata nel pubblico dominio. Oggi una nuova Disney probabilmente non potrebbe mai nascere.
Un monopolio comporta enormi svantaggi, e quindi occorre recuperare i principi originari perché si realizzino degli efficaci incentivi a produrre nuovi contenuti. Occorre, quindi, ridurre i termini di tutela delle opere.
Alcuni studi stimano che la tutela ottimale si aggira introno ai 15 anni, e comunque non dovrebbe superare i 30 anni. Attualmente, invece, la tutela è di 95 (dalla pubblicazione) o 120 (dalla creazione) anni (life+70). La differenza è enorme.