Il decreto Romani incombe sulle web TV

Se qualcuno si stava domandando che fine avesse fatto il decreto Romani che qualche tempo fa ha fatto versare fiumi di inchiostro, ebbene il penultimo atto per la sua applicazione è stato realizzato. Il 26 maggio è stato pubblicato dall’AgCom (Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni) lo “Schema di regolamento concernente la prestazione di servizi di media audiovisivi lineari o radiofonici su altri mezzi di comunicazione elettronica ai sensi dell’art. 21, comma 1-bis, del Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici”, che in sostanza è il regolamento che pone i dettagli per l’applicazione del decreto suddetto.

Il cosiddetto decreto Romani è la tardiva (il termine previsto per il recepimento era il 19 dicembre 2009) attuazione della direttiva europea 2007/65/CE (AVMSD, cioè Audiovisual Media Services Directive), sulle trasmissioni audiovisive, che, condivisibilmente, equipara ed assoggetta ad una medesima normativa tutti i fornitori di servizi audiovisivi, indipendentemente dalle modalità con le quali i contenuti audiovisivi vengono diffusi (principio della neutralità tecnologica), quindi tramite televisione, satellite o attraverso la rete.

Il decreto non si è, però, limitato ad un recepimento della direttiva in questione, quanto piuttosto ha mirato a ridisegnare tutto il sistema audiovisivo italiano, sostanzialmente estendendo la normativa relativa alle televisioni a tutti i servizi di diffusione di contenuti audiovisivi.
Una prima versione eccessivamente omnicomprensiva, e quindi passibile di censura a livello europeo, è stata poi ridisegnata, a seguito di un ampio movimento di critica comprendente anche gli operatori della comunicazione in rete che hanno paventato il rischio di doversi trasformare in sceriffi del web. Le modifiche hanno riguardato l’esclusione dall’assoggettamento alla suddetta normativa dei fornitori di contenuti audiovisivi che non svolgono prevalentemente attività economica oppure che non sono in concorrenza con la televisione, e genericamente i servizi nei quali il contenuto audiovisivo è meramente incidentale e non ne costituisce la finalità principale.
Quindi nella definizione di fornitore di media audiovisivi, ai sensi del decreto, rientrano oggi tutti i soggetti che diffondono video, tranne quelli che sono compresi nelle eccezioni esemplificate nel testo, una tecnica normativa che però potrebbe dare adito a problemi in quanto un servizio non ricompreso (o difficilmente includibile) nelle categorie escluse immancabilmente finirebbe nella categoria di fornitore di media audiovisivo.

In teoria si possono escludere, sulla base del testo, sia i siti privati che quelli che non svolgono attività commerciale, fermo restando che la raccolta pubblicitaria è evidente indice di attività commerciale, ed indubitabilmente farà rientrare un sito nella definizione di fornitore di media audiovisivo, in quanto al momento non vi è una distinzione quantitativa relativamente al guadagno del servizio, mentre restano escluse le persone fisiche o giuridiche che si occupano unicamente della trasmissione di programmi per i quali la responsabilità editoriale incombe a terzi, dove la responsabilità editoriale è intesa come “l’esercizio di un controllo effettivo sia sulla selezione dei programmi, ivi inclusi i programmi dati, sia sulla loro organizzazione in un palinsesto cronologico, nel caso delle radiodiffusioni televisive o radiofoniche, o in un catalogo, nel caso dei servizi di media audiovisivi a richiesta” (e qui sorge il dubbio se la selezione dei video più “belli” possa essere una scelta editoriale o meno).
La parificazione di servizi di tal fatta alle televisioni comporta immancabilmente l’applicazione ai siti in questione di tutte le norme previste per le televisioni, compreso, ad esempio, quelle sulla par condicio, sulle comunicazioni commerciali e sull’obbligo di rettifica.

Il regolamento dell’AgCom si inserisce nel determinare i dettagli per l’applicabilità del decreto, così stabilendo che la fornitura di servizi di media audiovisivi, sia lineari (che sono i servizi televisivi, o in streaming per quanto riguarda la rete) sia on demand (cioè i servizi che offrono contenuti a richiesta), potrà essere effettuata da “società di capitali o di persone, società cooperative, fondazioni, associazioni riconosciute e non riconosciute che abbiano la propria sede legale in Italia, ovvero in uno Stato dello Spazio economico europeo” (ma non da persone fisiche per quanto riguarda i servizi lineari) previa presentazione all’AgCom di una dichiarazione di inizio attività. Si tratta in sostanza di una autorizzazione generale con la durata di 12 anni, passibile di rinnovo, che potrà anche essere ceduta a terzi.
L’AgCom dovrà preventivamente verificare il possesso dei requisiti necessari, stabiliti dal medesimo regolamento, in capo al richiedente l’autorizzazione.
Il richiedente potrà fornire i servizi dalla data della sua presentazione, salvo la possibilità di diniego dell’autorizzazione da parte dell’AgCom.

Alla domanda di autorizzazione deve essere allegata una copiosa documentazione tra cui: il certificato di iscrizione al registro delle imprese, il casellario giudiziale del legale rappresentante del richiedente, il certificato antimafia, i carichi pendenti, una copia del marchio editoriale, una scheda relativa al sistema trasmissivo impiegato (su carta intestata della società!), e un versamento fissato in 3000 euro per il primo anno (1500 per i servizi solo audio).
I soggetti che già esercitano l’attività di fornitore di servizi audiovisivi hanno 4 mesi di tempo per depositare la documentazione al fine di ottenere l’autorizzazione alla prosecuzione del’attività.

Le perplessità rimangono le stesse che sorsero in relazione al decreto, cioè se si tratta di adempimenti burocratici necessari per una attività professionale, appaiono del tutto spropositati e defatigatori se riferiti ad una attività non professionale, casomai svolta da un soggetto unico nell’ambito di un blog personale (il blogger con videocamera a spalla, per intenderci), che però ha una raccolta pubblicitaria anche se assolutamente non paragonabile a quella di una televisione, e quindi svolge attività commerciale.
Si tratta dell’applicazione di una visione piuttosto miope sul web il quale viene, almeno in relazione ai siti che diffondono video, parificato ai canali televisivi (prova ne è la richiesta di marchi e carta intestata tra i documenti da depositare per ottenere l’autorizzazione), anche se tra queste due realtà esistono differenze ben marcate.

Permane inoltre il potere conferito all’AgCom di adottare misure per non turbare i minori, quindi con riferimento a contenuti che incitano alla violenza o di tipo pornografico, ma anche il potere di imporre agli operatori di accesso misure tecniche (compreso disposizioni di blocco o filtraggio, come previsto dall’art. 3 comma 8) per proteggere i diritti dei produttori in merito ai contenuti protetti dal diritto d’autore, così sottraendo tali attività al controllo della magistratura. Tali misure potrebbero, in teoria, anche violare la privacy dei cittadini, i quali sarebbero passibili di controllo preventivo anche in assenza di indizi di reato od illecito (e nel contempo il controllo imposto dall’AgCom agli operatori potrebbe determinare una responsabilità dei provider in quanto “a conoscenza” dei contenuti immessi dagli utenti).

Adesso ci sono 30 giorni a partire dalla pubblicazione della delibera dell’AgCom sulla Gazzetta Ufficiale per far pervenire le proprie osservazioni al regolamento (rigorosamente “tramite raccomandata con ricevuta di ritorno, corriere o raccomandata a mano”!), dopo di ché, in assenza di ulteriori modifiche, dovrebbe applicarsi a tutti i fornitori di media audiovisivi nonostante vi siano ancora fin troppi punti non del tutto definiti.