Nelle sue recenti esternazioni il presidente dell’AgCom, autorità deputata alla regolamentazione del diritto d’autore in rete a mezzo dell’emananda delibera AgCom, ha potuto ribadire concetti già espressi in precedenza senza aggiungere in realtà nulla di nuovo.
L’impressione è che voglia difendere una regolamentazione nella quale, forse, non crede nemmeno più lui.
In particolare riafferma la comparabilità tra diritti e libertà che non sono direttamente accomunabili, cioè la libertà di manifestazione del pensiero e i meri diritti patrimoniali dei produttori di contenuti, laddove tale concetto è ripetuto sempre e comunque in ogni discussione in tema, quasi a volerlo fissare nella mente degli interlocutori come un presupposto di base dal quale non si dovrebbe prescindere. Purtroppo è semplicemente errato perché stiamo parlando di oggetti giuridici che non si trovano sullo stesso piano.
Nessuno pensa che si debbano sopprimere i diritti patrimoniali delle multinazionali, ma il punto è che non si possono porre sullo stesso piano delle libertà dei cittadini, come invece farebbe la delibera AgCom, e se nasce conflitto tra loro sono gli interessi patrimoniali a dover cedere il passo, non il contrario.
Ma ciò che ci ha colpito è ben altro: “Può la fruizione diffusa e senza impacci dell’opera dell’ingegno - che vogliamo tutti - strangolare il diritto al compenso per il creatore dell’opera? Non si avvizzisce così alla radice la creatività, ch’è la maggiore risorsa di ogni società? Il problema non è solo italiano, è mondiale”.
Per un’illustrazione esaustiva di questo argomento ci vorrebbe ben più di un articolo, però possiamo ricordare che il copyright non nasce affatto, come vorrebbero farci credere, come una forma di tutela degli artisti, quanto piuttosto come una sottrazione di diritti degli artisti, poi concessi quale privilegio a soggetti terzi, i distributori (oggi editori). Infatti la prima forma di copyright nasce nell’Inghilterra del XVI secolo, quando a fini di censura fu attribuito ad una corporazione (gli Stationers) il diritto di copia (copyright appunto), sottraendolo agli autori.
Invero, con la nascita delle prime macchine di stampa si era posto il problema della diffusione delle “opinioni” e nasceva la necessità del loro controllo, per cui il copyright, attribuito ad uno degli Stationers, consentiva che fosse solo questi a decidere se l’“opinione” potesse essere divulgata o meno.
Gli Stationers, quindi, esercitavano una funzione di censura e controllo dei libri da pubblicare, funzione regolarmente retribuita che rimase loro privilegio anche quando l’avvento di nuove idee, più liberali, pose in soffitta gli intenti censori dei governi. Gli Stationers mantennero i loro privilegi, il copyright, ma questa volta basandosi sull’assunto che gli autori non disponessero dei mezzi economici per distribuire e stampare le proprie opere, essendo all’epoca quell’attività piuttosto costosa.
Quindi si impedì la liberalizzazione della stampa per i meri privilegi economici di una corporazione ed in tal senso gli Stationers si possono considerare gli antesignani dei moderni editori.
Col tempo la normativa in materia si estese a tutti gli Stati, in parte modificandosi, laddove uno dei cambiamenti fu dato dalla circostanza che il sostentamento degli autori venne indissolubilmente legato al profitto degli editori, così eliminando altre forme di sostentamento degli artisti.
Il fatto che il copyright oggi, del quale il nostrano diritto d’autore è una estensione, sia limitativo rispetto agli autori è provato dalla circostanza che sempre più autori abbandonano il tradizionale concetto di copyright a favore di nuovi tipi di licenze molto più adatte a loro, come le creative commons ad esempio, vendendo le loro opere direttamente in rete.
L’avvento della rete, infatti, ha scompaginato il campo, in quanto ha aperto possibilità prima impensabili per gli autori, consentendo distribuzioni delle loro opere a prezzi bassissimi, se non addirittura a costo zero. Quello che si vorrebbe eliminare non è il sostentamento degli artisti, quanto bensì il costo dell’intermediazione dei distributori, costo che ormai non ha più alcuna ragione di essere.
La rete ha così eliminato la necessità di intermediazione degli editori o distributori, determinando una ovvia reazione da parte di queste corporazioni per non perdere i loro privilegi.
Il discorso, ovviamente, è lungo e complesso, ma a noi interessa in relazione al punto creatività. Infatti, a bene vedere non è affatto la rete che uccide la creatività, quanto piuttosto è il copyright che elimina la spinta creativa degli autori.
Innanzitutto si deve considerare che il diritto d’autore e in particolare l’intermediazione degli editori e delle società di tutela dei diritti autoriali, come la Siae, per lo più consente guadagni solo a pochi grandi autori, mentre i piccoli autori finiscono per non ricevere alcunché a fronte del pagamento delle loro quote.
Il diritto d’autore di fatto massimizza i profitti per i detentori dei diritti, detentori che, salvo casi sempre più rari, non coincidono mai con chi le opere le crea, per cui le opere rendono più agli editori che agli artisti stessi. Del resto gli artisti possono ben testimoniare che loro i soldi li fanno coi concerti ed il merchandising, non certo con i dischi.
Soprattutto c’è da rimarcare, però, che il mercato controllato dagli editori seleziona le opere da distribuire sulla base delle valutazioni degli stessi editori. Per cui sul mercato va solo e soltanto ciò che piace agli editori (attenzione, agli editori, non al pubblico) o quello che ritengono vendibile, e come ben sappiamo gli editori hanno la tendenza a voler rischiare poco, per cui si finisce per immettere sul mercato opere sempre uguali alla precedenti, basti guadare al cinema che ogni anno ci ripropone sotto Natale il solito assolutamente identico cinepanettone. Insomma, scarsa propensione al rischio, tendenza a pubblicare ciò che è “commerciale”, senza discostarsi da quello che gli editori credono (credono!) sia il gusto del pubblico, si tratta di concetti decisamente molto diversi da quello qualitativo. Se questa è creatività….
Invece, come argutamente ci fece notare Chris Anderson, autore del libro The Long Tail (la coda lunga), in rete vince la diversificazione, che si oppone alla massificazione ed omologazione del mercato controllato dall’alto.
Siamo purtroppo talmente abituati alla nostra realtà che non ci rendiamo conto delle sue storture. Se i veri clienti degli scrittori e degli artisti in genere sono gli stessi editori la creatività col tempo si perde, poiché alla fine sono solo pochi, pochissimi individui, che decidono cosa si deve pubblicare, e non certo la massa della gente.
Ed ecco che l’avvento della rete davvero rompe gli schemi consentendo la disintermediazione ed il contatto diretto tra autore e fruitore dell’opera, che permette finalmente quel dialogo tra due mondi che hanno vissuto sempre fondamentalmente separati. Quindi la rete ha posto il problema agli editori di dover restituire agli artisti quella libertà intellettuale prima negata ed ingabbiata, oppure in alternativa reprimere la rete medesima imponendo ad essa delle pastoie burocratiche mai viste per i media che hanno preceduto il web. Gli editori dicono che la rete, in fondo un media, uno strumento come gli altri, necessita di regole che non si sono mai chieste per gli altri media, ma non tanto per la peculiarità libertaria della rete, quanto piuttosto per il fatto che è uno strumento multi direzionale, a differenza dei media tradizionali, decisamente più controllabili (pensiamo alla televisione). È l’unico media, fino ad ora, utilizzabile a costi bassissimi da parte dei cittadini!
In realtà, quindi, è il copyright ad uccidere la creatività, non certo la rete che invece la alimenta e sostiene, consentendo a chiunque di mettere in condivisione qualunque opera, anche quella di nicchia che casomai interessa solo sparuti utenti, generando la cosiddetta “coda lunga” tanto cara ad Anderson. Uno dei tantissimi esempi è Terra Naomi che ha fatto fortuna solo grazie alla rete, una cantante di raro talento che un giorno decide di registrare le sue canzoni e pubblicarle online su YouTube ottenendo immediatamente un successo altrimenti insperato.
Ed un concetto del genere può essere applicato a qualunque cosa: libri, musica, video, film anche amatoriali, vino, cibo. Tutto ciò che potenzialmente ha anche un solo cliente o fruitore, ha un mercato in rete, senza alcuna necessità di un intermediario, distributore od editore che dir si voglia, che elevi artificialmente i costi rendendo improponibile la produzione di quelle opere che hanno un mercato numericamente ridotto o che semplicemente non possono essere ingabbiate nelle strette maglie imposte dall’editoria tradizionale.
Insomma, se la musica o le opere in genere diventano un prodotto industriale, l’originalità non ha alcun valore, ciò che conta è la commerciabilità del prodotto, per cui la macchina industriale automaticamente degrada il gusto del pubblico imponendo criteri di pubblicazione che non hanno nulla a che fare con la creatività o la qualità in genere. E quello che inizialmente è una forzatura del gusto, pian piano diviene la norma. L’imitazione creativa, infatti, è l’imperativo del mercato, il quale non accetta di buon grado cose troppo originali.
Al giorno d’oggi esistono libri che nessun può leggere solo perché gli editori ritengono che non sia commercialmente conveniente ristamparli, ma non ne cedono nemmeno i diritti, consentendo ad altri di pubblicarli. Ed allo stesso modo abbiamo musica che non si può eseguire in pubblico, poesie che non possono essere lette, quadri che non possono essere fotografati…
E comunque anche quando si parla di “copia” in rete, il concetto deve essere ben chiarito perché da adito a numerose interpretazioni.
In realtà “copia” non ha un significato preciso, e sicuramente ha una accezione molto più vasta al di fuori di un tribunale, al punto che quasi qualunque comportamento in rete viene etichettato come tale.
La produzione artistica è sempre influenzata dal contesto culturale dove si situa l’autore, per cui l’ispirazione e la contaminazione sono i presupposti di base di qualunque opera. Come si fa effettivamente a distinguere tra plagio e imitazione creativa? Quale è il discrimine tra copia e contaminazione?
In realtà si dovrebbero fare numerose distinzioni, separando ciò che è pura riproduzione pedissequa in assenza di richiamo della fonte originale, cioè chi riutilizza l’opera spacciandola per propria, da qualunque altro tipo di contaminazione. Oggi vi sono tanti tipi di riutilizzo di un’opera, ad esempio la satira, la parodia, i commenti critici ma anche quelli positivi, gli esempi e le illustrazioni, ci sono gli spunti per le discussioni, gli accompagnamenti e i sottofondi, i reportage, l’archiviazione di materiali, i collage, i mix e i mash up. In tutti questi innumerevoli e non esaustivi casi, si ha la riproposizione di materiale altrui sul quale è possibile vi siano dei diritti autoriali, ma ciò non vuol dire classificare automaticamente tali opere come “copia”. In realtà per essere veramente deleteria una “copia” dovrebbe essere ingannevole, fuorviante per il pubblico a cui è rivolta, carpendone la fiducia.
Non è, quindi, solo un problema relativo al P2P ed alla distribuzione pedissequa di contenuti quali film e musica, il problema è molto più vasto se consideriamo che l’industria dei contenuti ha ritenuto illecito diffondere delle foto di una strada dove si stavano effettuando le riprese di un film ancora non distribuito, quindi sulla base di un preteso diritto autoriale nemmeno ancora nato. Oppure ricordiamo il caso di chi si è opposto alla ripubblicazione di fotografie scattate da una scimmia, per la precisione un autoritratto. È evidente che una scimmia non ha diritti autoriali, ma se anche li avesse dovrebbe essere l’animale a farli valere, non il proprietario della macchina fotografica, come invece è avvenuto nel caso specifico.
Non è sufficiente, quindi, parlare soltanto del solito film copiato e diffuso illecitamente, ma è necessario affrontare il problema anche da altre prospettive, tipo quella della riproduzione di parti di opere altrui con modifiche delle stesse, contaminazioni, o semplice ispirazione. Sono tutte situazioni che devono essere accuratamente valutate, e spesso anche un magistrato competente in materia (se ne occupano sezioni specializzate) ha difficoltà a discernere tra le varie situazioni, mentre qui stiamo discutendo, con la delibera AgCom, di lasciare la valutazione della liceità o meno di un contenuto al presunto titolare dei diritti autoriali, quindi interessato, e al gestore del sito, quindi probabilmente assolutamente non competente della materia.
Pensiamo a Shakespeare che nella sua descrizione di Cleopatra sulla barca, in Antonio e Cleopatra (opera che entrò nello Stationers Register nel 1608 ma fu pubblicato solo nel 1623!) sostanzialmente parafrasa in versi la vita di Marco Antonio di Plutarco. Oppure, per venire ai giorni d’oggi, all’ispirazione di Dan Brown sul matrimonio tra Gesù e la Maddalena, ripresa dal libro di Michael Baigent e Richard Leigh, Il mistero del Graal, dalla quale vicenda giudiziaria Brown è comunque uscito pulito.
Proviamo a pensare se la decisione in merito a tutte queste vicende fossero dipese solo dalla valutazione del titolare del diritto e del gestore di un sito, così come vuole la delibera AgCom.
Con quella normativa Shakespeare sarebbe stato marchiato come “pirata”!
La delibera AgCom è tutto tranne che una protezione per l’artista e la creatività, perché se si blocca la citazione, l’ispirazione, la contaminazione, se si impedisce il riuso delle fonti precedenti con la scusa dei diritti autoriali, l'arte si inaridisce, perché essa alla fine non è altro che la rielaborazione di tutto ciò che precede.
Quindi, il problema sembra ben altro rispetto a quanto indicato dal presidente AgCom, se egli davvero si preoccupa che la creatività degli italiani possa risentirne, forse la strada migliore è risolvere i problemi del digital divide, incentivare l’uso della rete, e così via. Del resto sono concetti potenzialmente propri di Calabrò quando sostiene che “un intervento per la tutela di diritti di proprietà intellettuale non può avere un contenuto esclusivamente repressivo, ma deve contenere anche elementi propositivi con iniziative per ampliare le aree di utilizzo “legale”, far maturare una cultura del rispetto del diritto d’autore, stimolare nuove forme di licenze collettive e creative commons. L’Italia ha due primati negativi: agli ultimi posti in Europa per l’accesso ad internet, e ai primi posti nel mondo per la pirateria. Dati che fanno riflettere”.
Già, forse bisognerebbe incominciare a riflettere che la pirateria si combatte prima di tutto con il miglioramento dell’accesso alla rete e lo sviluppo dei servizi online, come del resto hanno capito in Cina dove il gigante della rete Baidu ha siglato un accordo grazie al quale 500.000 brani musicali diventano scaricabili legalmente per 450 milioni di utenti, a fronte del pagamento di un margine dai guadagni pubblicitari da parte di Baidu. Con un solo colpo la Cina legalizza buona parte del traffico illegale in rete!
Parafrasando quanto sostiene il presidente dell’AgCom, e ricordando che in fondo “Far” vuol dire semplicemente “lontano” e non certo “selvaggio” come invece parrebbe intendere l’AgCom, bisognerebbe avere meno paura del Far Web, e preoccuparsi un po’ di più che il Web in Italia è un po’ troppo “Far”.