In questi giorni si sta consumando l’ennesimo episodio della telenovela del lodo Alfano, il provvedimento legislativo che dovrebbe fare da scudo alle massime cariche dello Stato, cioè il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio, ed impedire che possano essere processati durante il loro mandato, con sospensione dei processi.
Il Capo dello Stato ha stigmatizzato il provvedimento in sede referente, esprimendo profonde perplessità sulla scelta da parte della commissione affari costituzionali di prevedere una sospensione dei processi anche per il presidente della Repubblica. Al di là della lettura giornalistica della vicenda, vista come il rifiuto da parte del capo dello Stato verso una protezione di tal tipo, così ché tale provvedimento rimarrebbe applicabile al solo presidente del Consiglio, dal punto di vista tecnico giuridico le osservazioni del Quirinale sono di notevole rilevanza.
L’attuale normativa, in particolare l’art. 90 della Costituzione, prevede che “Il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione”, nelle quali ipotesi il capo dello Stato sarebbe processato direttamente dal Parlamento in seduta comune a maggioranza assoluta dei suoi membri.
La normativa in questione mostra che il capo dello Stato è comunque responsabile per reati extrafunzionali, cioè reati comuni (come potrebbe essere un omicidio, una corruzione, o un abuso edilizio) per i quali ne risponderebbe come un comune cittadino.
Il lodo Alfano, invece, innova pesantemente tale normativa confezionando la medesima copertura sia per il presidente della Repubblica che per il presidente del Consiglio, laddove entrambi, in caso di commissione di reati comuni, cioè extrafunzionali, sarebbero sottoponibili ad un processo solo se il Parlamento lo consente. Ciò vuol dire, sostanzialmente, che il Parlamento potrebbe far valere asserite responsabilità penali del presidente della Repubblica a maggioranza semplice, anche per atti diversi dalle fattispecie citate nell’art. 90 della Carta Costituzionale, ed in tal modo non solo la normativa proteggerebbe il capo dello Stato meno di quella attuale, ma in particolare lo porrebbe nelle mani della maggioranza del Parlamento che è, ovviamente, legata all’esecutivo.
In tal modo, conclude il Quirinale, si minerebbe l’indipendenza del presidente della Repubblica nell’esercizio delle sue funzioni, in contrasto con l’art. 90 sopra richiamato.
Appare evidente, quindi, l’incostituzionalità della norma in relazione alla posizione del capo dello Stato.
Per il resto, con la precisazione che il provvedimento è ancora in corso d’opera, per cui è difficile dare valutazioni definitive, occorre però ricordare che il provvedimento in questione non è altro che la riedizione, con alcun modifiche, di precedenti provvedimenti già dichiarati illegittimi dalla Corte Costituzionale per violazione del principio di uguaglianza dei cittadini e per contrasto col principio di rigidità costituzionale (art. 138 Cost.), il quale impone il ricorso alla forma della legge costituzionale quando si intendono porre in essere norme capaci di incidere sul dettato costituzionale medesimo.
Orbene, il nuovo lodo Alfano è una legge costituzionale (n. 2180/S) e come tale si inserirebbe direttamente nella Carta, così rispettando il principio di cui all’art. 138. Ma, sovviene la necessità di ricordare che il fatto che una norma sia di rango costituzionale non vuol dire che tale norma non sia essa stessa sottoponibile al vaglio di legittimità costituzionale, in quanto anche detta norma deve comunque rispettare i principi basilari della Costituzione sanciti ai primi articoli della Carta. Per cui anche la legge costituzionale denominata lodo Alfano sarà sottoponibile al vaglio della Corte Costituzionale, e in tal caso appare possibile una nuova bocciatura perché risulta ancora in contrasto con il principio di uguaglianza dei cittadini di cui all’art. 3, nonostante varie modifiche.
In particolare, la Consulta, nel bocciare nell’ottobre del 2009 il precedente lodo Alfano, ritenne che quel provvedimento andasse inserito nell’ambito delle immunità, e visto in quest’ottica il lodo Alfano si scontra col principio di uguaglianza di trattamento dei cittadini rispetto alla giurisdizione che non tollera eccezioni con riferimento ai reati comuni, giacché nel compimento di reati comuni i titolari delle alte cariche non sono giuridicamente diversi da qualsiasi altro cittadino.
Una cosa è prevedere delle prerogative in relazione a reati commessi nell’esercizio delle proprie funzioni, come fa l’art. 90 della Costituzione in relazione al presidente della Repubblica, ben altro è prevedere delle prerogative in relazione a tutti i reati possibili, che minerebbero il principio di uguaglianza stabilito dall’art. 3 della Costituzione e posto tra i fondamentali principi dello Stato italiano.