Il 7 ottobre 2009 la Corte Costituzionale, anche detta Consulta, dichiara l’incostituzionalità dell’articolo 1 della legge n. 124 del 2008, comunemente conosciuta come lodo Alfano. Tale articolo prevede la sospensione di tutti i processi, compresi quelli per reati comuni, a carico delle maggiori cariche dello Stato, cioè il Presidente della Repubblica, i Presidenti della Camera e del Senato e il Presidente del Consiglio dei Ministri. La sospensione, secondo il lodo Alfano, dura dalla data di assunzione della carica, o funzione, fino alla cessazione della carica medesima, e riguardao anche i processi iniziati prima dell’assunzione della carica suddetta.
La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della suddetta legge per violazione degli articoli 3 e 138 della Costituzione, quindi per violazione del principio di uguaglianza dei cittadini e del principio di rigidità costituzionale (che impone il ricorso alla forma della legge costituzionale quando si intendono porre in essere norme capaci di incidere sul dettato costituzionale).
Il 19 ottobre vengono rese note le motivazioni della pronuncia della Consulta, rendendo così possibile una analisi più approfondita dell’intera questione.
La vicenda risale al giugno 2003 quando viene approvato il cosiddetto lodo Schifani, legge ordinaria che prevede che non possano essere sottoposte a processo le quattro maggiori cariche dello Stato. Tale legge viene dichiarata parzialmente incostituzionale nel 2004, in quanto viola i principi di uguaglianza e del diritto alla difesa, impedendo di sottoporre a processo le maggiori cariche dello Stato nel corso del proprio mandato.
Nel 2008 viene approvato dal Parlamento il lodo Alfano, e il governo sostiene di aver recepito le indicazioni della Consulta, fornite nel dichiarare l’illegittimità del lodo Schifani, in modo da emendare la norma e correggerla.
Nel pubblicare la legge il Presidente della Repubblica sostiene che “a un primo esame, quale compete al Capo dello Stato in questa fase, il disegno di legge approvato il 27 giugno dal Consiglio dei ministri è risultato corrispondere ai rilievi formulati in quella sentenza”, con ciò sposando la tesi del governo. Aggiunge inoltre che la Corte Costituzionale “non sancì che la norma di sospensione di quei processi dovesse essere adottata con legge costituzionale. Giudicò inoltre un interesse apprezzabile la tutela del bene costituito dalla assicurazione del sereno svolgimento delle rilevanti funzioni che ineriscono a quelle cariche rilevando che tale interesse può essere tutelato in armonia con i principi fondamentali dello Stato di diritto, rispetto al cui migliore assetto la protezione è strumentale, e stabilendo a tal fine alcune essenziali condizioni”.
In sostanza, poiché la sentenza di illegittimità costituzionale del lodo Schifani faceva riferimento al solo articolo 3 della Costituzione, si era erroneamente pensato che la Corte ritenesse non indispensabile lo strumento della modifica della Costituzione, come previsto dall’articolo 138, per poter inserire nel nostro ordinamento una tutela come quella prevista dal lodo Schifani prima e poi da quello Alfano.
Teniamo presente, però, che la valutazione del Capo dello Stato è diversa rispetto a quella della Consulta, per cui non si può dire che vi fosse in quella valutazione una anticipazione del giudizio della Corte Costituzionale, né un avallo alle tesi del governo in difesa del lodo Alfano.
Infatti, la sentenza della Corte sul lodo Schifani si era limitata all’esame di alcuni dei profili di incostituzionalità, in particolar modo quello relativo all’articolo 3 della Costituzione, ritenendo assorbiti gli ulteriori profili. Come gli addetti ai lavori sanno, sia la Consulta che la Cassazione, per esigenze di speditezza, spesso sentenziano in questo modo. Se vi sono più aspetti in base ai quali una legge si può ritenere incostituzionale, basta evidenziarne uno e ritenere assorbiti gli altri, cioè non entrare in una analisi approfondita degli altri aspetti. Ciò non vuol dire che per quegli aspetti la legge deve ritenersi legittima, ma solo che la Consulta non ha ritenuto, in quel momento, di analizzare quegli aspetti, potendolo fare eventualmente, però, in una seconda fase, quando la legge, corretti i primi aspetti, venga riportata dinanzi alla Consulta.
In verità vari costituzionalisti fanno notare che il lodo Alfano non ha affatto corretto gli aspetti denunziati dalla Consulta, in particolare non ha rimediato all’automatismo generalizzato della sospensione dei processi. Se la tutela concerne le alte cariche sarebbe stata necessaria la previsione di un giudizio di accertamento della plausibilità della tutela differenziata. Secondo il costituzionalista Elia, infatti, è del tutto arbitrario che la sospensione possa operare automaticamente per tutti i reati, anche per quelli più gravi dal punto di vista comune, come l’omicidio o lo stupro.
Inoltre, nel lodo Alfano non si è nemmeno tenuto conto dell’incostituzionalità della distinzione dei presidente delle Camere e del presidente del Consiglio dei ministri, rispetto agli altri componenti degli organi da loro presieduti. Secondo la Consulta, infatti, sia i presidenti delle Camere rispetto ai parlamentari, sia il presidente del Consiglio dei ministri, non hanno funzioni superiori rispetto agli altri componenti degli organi che presiedono, ma partecipano alla stesso modo a tali funzioni. Per cui il lodo Alfano avrebbe dovuto essere esteso anche agli altri componenti degli organi in questione. In altri termini, il legislatore del 2008 avrebbe dimostrato una buona, ma non sufficiente, volontà di correzione rispetto alla sussistenza dei difetti già rilevati dalla Corte nel 2004.
Nel decidere sul lodo Schifani, in realtà, la Consulta ritenne di poter ricondurre l’istituto di cui alla legge nell’ambito delle sospensioni del processo, pur finalizzate alla soddisfazione di esigenze extraprocessuali. Per cui, vista in questo modo la questione, all’epoca, non era tanto la sospensione in sé a confliggere con la Costituzione, bensì la mancanza di un interesse costituzionalmente protetto e collegato allo status di imputato che poteva portare a ritenere violato il principio di uguaglianza. I giudici della Corte ritennero, in quella sede, di poter identificare tale interesse nell’assicurazione del sereno svolgimento delle rilevanti funzioni che ineriscono alle cariche indicate, come poi il Presidente della Repubblica chiosò nella nota di accompagnamento alla pubblicazione delle legge.
Ma questo non vuol dire che la Consulta non possa valutare nuovi elementi, oppure allargare l’analisi ad altri profili.
Ecco che, con la decisione del 2009, la Consulta ritiene che la tutela di cui al lodo Alfano va inserita non nell’ambito delle sospensioni processuali, bensì in quello delle immunità. In questa corretta prospettiva, quindi, la Corte ha convenuto della necessità di ricorrere ad una legge costituzionale per introdurre nel nostro ordinamento una tutela di tal fatta, tutela che altrimenti confliggerebbe col principio di eguaglianza.
Infatti, il principio di parità di trattamento rispetto alla giurisdizione non tollera eccezioni con riferimento ai reati comuni, giacché nel compimento di reati comuni i titolari delle alte cariche non sono giuridicamente diversi da qualsiasi altro cittadino, come ha infatti concluso l’avvocato dello Stato.
In sintesi, dice la Corte, una cosa è prevedere una tutela differenziata per i reati commessi dalle maggiori cariche dello Stato nell’esercizio delle proprie funzioni, tutela che una volta era prevista dalla nostra Costituzione ma fu abolita ai tempi di tangentopoli, e sostituita con l’autorizzazione a procedere, necessaria per l’arresto di un parlamentare oppure per particolari ed intrusivi atti di indagine. Cosa ben diversa è invece prevedere una tutela differenziata per i reati comuni commessi da tali cariche. Tale tipo di tutela è illegittima costituzionalmente in quanto la Costituzione prevede l’uguaglianza dei cittadini, e un’alta carica dello Stato, nel compimento di reati comuni, non può essere ritenuta giuridicamente diversa rispetto ai cittadini comuni.
Per introdurre tale tipo di tutela, conclude la Corte, necessita una modifica costituzionale, come prevista dall’articolo 138 della Costituzione, con le maggioranze qualificate del Parlamento, proprio come accade per le altre deroghe previste nella Costituzione, come ad esempio per i reati commessi dal Capo dello Stato, laddove l’articolo 90 prevede che “Il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione”.
Con questa pronuncia la Consulta ha bocciato la legge, mostrando che l’intero meccanismo appare incostituzionale per vizi strutturali. In tal modo si evidenzia che una ulteriore legge che tentasse di realizzare il medesimo obiettivo con uno strumento assimilabile sarebbe anch’essa ritenuta incostituzionale.