La recente sentenza della Corte di Giustizia europea, del 16 febbraio 2012, si aggiunge alla sentenza che riguardava la disputa tra Sabam e Scarlet, rafforzando i principi esposti in quella sede.
Anche in questo caso c’entra la Sabam, la società che rappresenta gli autori, compositori ed editori di opere musicali in Belgio, in pratica l’equivalente della nostrana Siae. Contraddittore è Netlog, un social network con circa 2 milioni di iscritti, citato in giudizio perché la Sabam pretendeva che predisponesse dei filtri generalizzati per impedire le diffusione di opere protette dal diritto d’autore senza il consenso dei titolari. La richiesta era, quindi, di una azione inibitoria, alla quale il social network ha risposto negativamente, sostenendo che l’ingiunzione in questione avrebbe portato alla predisposizione di un sistema di filtraggio dei contenuti, preventivo, illimitato nel tempo ed eccessivamente costoso.
Anche stavolta la Corte europea ha deciso nel senso che un sistema di filtraggio come richiesto da Sabam è in contrasto col diritto comunitario. Un sistema di filtraggio di tale tipo presupporrebbe, infatti, che il prestatore di servizio di hosting controlli tutti i contenuti immessi nei suoi server, identifichi quelli in violazione dei diritti d’autore, e proceda al blocco di questi contenuti. È evidente che una sorveglianza di questo tipo richiede un’osservazione attiva di tutte le informazione immesse dagli utenti del servizio, e riguarda anche le future violazioni, postulando che la tutela sia applicabile anche ad opere non ancora create al momento in cui si predispone il sistema di filtraggio.
La Corte precisa che un’ingiunzione del genere causa una grave limitazione alla libertà di impresa del prestatore di servizi, obbligandolo a predisporre un sistema informatico complesso, permanente ed interamente a sue spese. Gli effetti del’ingiunzione non si limiterebbero, inoltre, al solo prestatore, ma finirebbero per ledere anche i diritti fondamentali degli utenti del servizio, cioè il diritto alla tutela dei loro dati personali, e della libertà di informazione, nonché il diritto alla libertà di espressione poiché il sistema potrebbe non essere in grado di distinguere adeguatamente tra un contenuto illecito ed uno lecito, sicché la conseguenza sarebbe quella di bloccare anche contenuti leciti.
La conclusione è che le norme europee “devono essere interpretate nel senso che ostano all’ingiunzione, rivolta da un giudice nazionale ad un prestatore di servizi di hosting, di predisporre un sistema di filtraggio:
– delle informazioni memorizzate sui server di detto prestatore dagli utenti dei suoi servizi;
– che si applichi indistintamente nei confronti di tutti questi utenti;
– a titolo preventivo;
– a spese esclusive del prestatore, e
– senza limiti nel tempo,
idoneo ad identificare i file elettronici contenenti opere musicali, cinematografiche o audiovisive rispetto alle quali il richiedente il provvedimento di ingiunzione affermi di vantare diritti di proprietà intellettuale, onde bloccare la messa a disposizione del pubblico di dette opere, lesiva del diritto d’autore”.
La Corte chiarisce che la tutela del diritto fondamentale di proprietà, di cui fanno parte i diritti di proprietà intellettuale (art. 17 par. 2 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea), deve essere comunque bilanciata con quella di altri diritti fondamentali, non potendo ritenersi la proprietà intellettuale intangibile e la cui tutela debba essere garantita in modo assoluto.
La normativa europea prevede la possibilità per i titolari dei diritti di chiedere un provvedimento inibitoria contro gli intermediari che consentano violazioni in rete da parte dei loro utenti, laddove le condizioni del provvedimento ingiuntivo devono essere stabilite dal diritto nazionale degli Stati membri (questo perché c’è la necessità di tutelare le utilizzazioni libere -fair use- che differiscono da Stato a Stato).
Quindi i provider possono essere oggetti di provvedimenti al fine di individuare e prevenire “taluni tipi di attività illecite”. Ma, nell’emissione di tali provvedimenti, è compito delle autorità (senza specificazioni, quindi da ricomprendere anche quelle amministrative) e dei giudici nazionali garantire un corretto bilanciamento tra la tutela dei diritti dei titolarti e quelli delle persone sulle quali incidono dette misure.
Ciò vuol dire che ai giudici nazionali è consentito ingiungere ai provider non solo di porre fine alle violazioni già realizzate, ma anche a prevenire nuove violazioni, purché le ingiunzioni siano “eque, proporzionate e non eccessivamente costose”.
In sostanza la normativa europea prevede che gli Stati membri non possano imporre obblighi di sorveglianza di carattere generale, ma non riguarda gli obblighi di sorveglianza nei casi specifici, lasciando impregiudicate le ordinanze emesse dalle autorità nazionali secondo le rispettive legislazioni.
Infine, è utile comparare tali pronunce della Corte europea con quanto vorrebbe introdurre il trattato ACTA. Alcuni commentatori, infatti, hanno sostenuto che tale sentenza sarebbe in contrasto col trattato in discussione alla Commissione europea.
In realtà, l’articolo 8 di ACTA prevede: “Le parti dispongono che, nei procedimenti giudiziari civili relativi all'esecuzione dei diritti di proprietà intellettuale, le autorità giudiziarie abbiano la facoltà di emanare un'ordinanza per imporre a una parte di desistere dalla violazione di un diritto e, tra l'altro, per impedire a tale parte, o se del caso a un terzo sottoposto alla giurisdizione dell'autorità giudiziaria in questione, di introdurre nei circuiti commerciali merci oggetto di una violazione di un diritto di proprietà intellettuale”.
L’articolo 12, inoltre, riserva la facoltà di misure provvisorie alle autorità giudiziarie, con questo andando anche oltre l’acquis comunitario che prevede la possibilità di misure da parte di “autorità nazionali”, compreso quindi quelle amministrative.
L’articolo 27 parla genericamente di “rimedi rapidi ed efficaci”, senza ulteriore specificazione, applicati “in modo tale da evitare la creazione di barriere per le attività legittime, tra cui il commercio elettronico, e da tutelare i principi fondamentali quali libertà di espressione, equo trattamento e privacy conformemente alla normativa delle parti”.
Almeno in relazione a questo particolare aspetto del filtraggio, quindi, anche se in maniera generica ACTA appare perfettamente in linea con quanto sostenuto dalla Corte di Giustizia.