La diffamazione non è un reato di opinione: il caso Sallusti

La diffamazione non è un reato di opinione: il caso Sallusti

La notizia che tiene banco negli ultimi giorni è la possibile condanna in Cassazione di Alessandro Sallusti per responsabilità editoriale e diffamazione aggravata in relazione ad un articolo pubblicato su un giornale del quale Sallusti era direttore responsabile.

Senza voler entrare nel merito della vicenda, e nella diatriba sull'opportunità o meno di applicare la pena del carcere alla diffamazione a mezzo stampa, ci preme correggere una grave imprecisione che si riscontra in molti articoli, cioè l'aver accomunato la diffamazione ai reati di opinione.
Alcuni commentatori hanno rilanciato l'idea che sia gravissimo che ancora oggi in Italia si vada in galera per un reato di opinione, come se fossimo in Cina, così chiedendo una riforma dei reati in questione. Peccato che, nonostante qualche raro parere discordante, la diffamazione non si può considerare un reato di opinione.

In verità, reato di opinione non è una dizione molto chiara, e forse sarebbe più appropriato definirli come reati di comunicazione della propria opinione. Infatti, per fortuna non è ancora possibile condannare una persona per i suoi pensieri inespressi, per cui evidentemente la si può condannare per le sue opinioni solo nel momento in cui le comunica a terzi.
Quindi non è l'opinione in sé ad essere reato, ma la sua comunicazione.
Ovviamente non tutti i pensieri, se comunicati, sono soggetti a determinare un reato. Se così fosse nella categoria sarebbero ricompresi fin troppi comportamenti, tra i quali anche la diffamazione, la falsa testimonianza, la minaccia, la corruzione, ecc...
La categoria dei reati di opinione, invece, ricomprende il vilipendio (es. contro la religione), l'apologia, la propaganda (es. quella razzista).

Già dall'elencazione si può iniziare a intuire quali sono gli elementi che distinguono i reati di opinione, che consistono nella manifestazione recettiva di un pensiero, avente però un contenuto non meramente narrativo od informativo, bensì critico.
Cioè si esprime un certo modo di pensarla rispetto ad un determinato argomento.
L'opinione viene giuridicamente considerata solo da un punto di vista valutativo, e non certo in relazione agli effetti che la comunicazione dell'opinione ha sul mondo esterno. Questo elemento vale per distinguere questa categoria di reati da quelli tipo la minaccia, l'istigazione o la falsa testimonianza, che rilevano in quanto determinano degli effetti sul mondo esterno.
Altro elemento distintivo dei reati di opinione è il divieto legato al messaggio, cioè scopo dell'incriminazione è proprio evitare che quel certo contenuto, quella certa opinione, sia veicolata verso terzi.
Ma, soprattutto, le norme sui reati di opinione tutelano esclusivamente valori morali, spirituali, ideali o sentimenti, intesi però solo come valori morali diffusi o collettivi, cioè sovra-individuali e quindi riconducibili all'intera società.
Questo è l'elemento che distingue il reato di opinione da quei reati, come la diffamazione, posti a tutela di valori individuali, quali possono essere la dignità di una persona, il suo onore, o la sua reputazione.

Risaltano quindi evidenti le peculiarità della categoria, compreso l'indeterminatezza delle singole fattispecie. La formulazione di questo tipo di reati è infatti generica e sfrutta termini laconici e difficili da sostanziare. Basti pensare al concetto di vilipendio, le cui definizioni spesso sono una mera parafrasi del termine medesimo: vilipendere, cioè dileggiare qualcuno. I reati di opinione, infatti, a parte un certo novero di casi esempio, soffre di una vaghezza che rende del tutto incerto ricomprendere una fattispecie nell'ambito della norma.
Anche questo è un elemento che distingue la categoria dal reato di diffamazione, quest'ultima anch'essa nozione vaga, che però si determina attraverso il risultato del comportamento, l'effetto della comunicazione sul soggetto che la recepisce.

Ad una attenta analisi della categoria si evidenzia che i reati di opinione non sono altro che derivati dei vecchi delitti di lesa maestà, quindi legati ad un sistema di valori di cui era espressione il vecchio codice Rocco. Cioè sono comportamenti che turbano direttamente o indirettamente il prestigio delle istituzioni e quindi quei valori morali antichi, tipo l'idea di nazione, l'obbedienza alle leggi statali, il prestigio dello Stato, ecc...
Appare quindi chiaro che con un mutato quadro politico e sociale, oggi quei valori non sono più sentiti come un tempo, laddove adesso al centro dell'ordinamento non è più l'idea di Stato sovrano bensì l'individuo nella sua dignità e con tutti i suoi diritti.

La distinzione è importante, perché la libertà di manifestazione del pensiero, sancita dall'articolo 21 della Costituzione, difende il diritto del cittadino di comunicare il proprio pensiero, la propria opinione, ma non fino a giustificare gli effetti che tale comunicazione ha sul mondo esterno. La minaccia, ad esempio, è comunque una condotta comunicativa, e senza questa differenziazione si finirebbe per ricomprendere nella libertà di manifestazione del pensiero il diritto di minacciare.
Analogo discorso si può fare per la diffamazione, che rileva in tribunale per gli effetti che si realizzano nel mondo esterno.

Lo Stato, infatti, si riserva il diritto di escludere e punire l'esercizio della libertà di manifestazione del pensiero, ma non l'opinione in sé quand'anche fosse offensiva, irriguardosa o addirittura blasfema, limitando però tale diritto nel momento in cui il suo esercizio realizza effetti turbativi nel mondo esterno ritenuti passibili di punizione.
È palese, infatti, che offendere un soggetto specifico e determinato è, per quel soggetto, ben più grave che offendere una categoria alla quale appartiene (es. gli italiani), perché nel secondo caso l'offesa generica presuppone una non conoscenza diretta della persona chiamata in causa. Allo stesso modo sputare in faccia ad una persona è, per quella persona, decisamente molto più lesivo che sputare sulla bandiera italiana. La differenza sta nel fatto che un valore sovra-individuale per definizione difficilmente può essere intaccato da un atto di un singolo; non è certo l'atto di sputare sulla bandiera ad eliminare un sentimento di partecipazione allo Stato, se è davvero sentito dai cittadini, mentre invece la diffamazione può determinare conseguenze molto più concrete verso un singolo individuo.

Ecco perché oggigiorno sempre più voci si sollevano nel chiedere una riforma se non addirittura l'abolizione di questa categoria di reati, o quanto meno la riduzione delle pene edittali decisamente eccessive per i nostri tempi, perché oggi si ritiene che il rispetto delle leggi e per le istituzioni non possano essere inculcati con la forza, ma debbano essere la conseguenza delle scelte dei politici. Uno Stato che pretende legittimazione vietando le opinioni dei singoli non è sentito come democratico.
Quindi, se può essere giusto procedere ad una riforma dei cosiddetti reati di opinione, bisogna fare attenzione a non ricomprendere in questa categoria reati che con essi non hanno nulla a che fare, come la diffamazione, reati contro i quali, oggi più che mai in un'epoca nella quale, nonostante l'avvento di internet, i mass media hanno sempre un potere enorme, è difficilissimo difendersi adeguatamente per il singolo cittadino. Proprio per la sua offensività contro il singolo, e per la centralità dell'individuo negli ordinamenti democratici moderni, la diffamazione oggi più che mai ha bisogno di attenzione.

Insomma, non si può essere puniti per ciò che si pensa, ma lo si può essere se comunicare ciò che si pensa lede i diritti di altri individui, altrimenti vigerebbe la legge delle giungla, il più forte (chi ha a disposizione un giornale o una televisione) vince sempre: la mia libertà finisce dove inizia quella degli altri!