La privatizzazione della libertà di stampa

facebook-errorEpisodi di blocco di utenti o pagine sul noto social network Facebook se ne sono già avuti in passato, ma negli ultimi giorni questi accadimenti hanno toccato anche dei giornali veri e propri. Tra il 21 e il 22 di luglio, infatti, provando a condividere articoli provenienti dal dominio ilfattoquotidiano.it si riceveva il seguente messaggio di errore:

In questo messaggio sono presenti dei contenuti bloccati che sono già stati contrassegnati come offensivi o spam. Facci sapere se ritieni che si tratti di un errore”.

Inoltre tutti i contenuti provenienti dal sito de “Il Fatto Quotidiano”, anche quelli pubblicati in precedenza, erano stati oscurati, come spiegava una pagina del giornale.
Qualche giorno dopo la stessa situazione si è presentata, stavolta in relazione alle pagine e gli articoli de IlGiornale.it.

Non è difficile comprendere cosa è accaduto per chi ha una certa dimestichezza con i social network, e del resto anche il Giornale spiega che “in tutta questa bagarre, Facebook non c’entra niente. Il social network segue semplici logiche di sistema. Ogni pagina ha un pulsante per segnalare eventuali infrazioni (insulti, calunnie, immagini di nudo o contenuti offensivi) dei termini di servizio. Quando i contenuti vengono segnalati da troppe persone, le «macchine» del social network rispondono in automatico bloccando il dominio e la sua diffusione”.
Entrambi i giornali chiariscono che occorre l’aiuto dei lettori, “nello loro mani è infatti la possibilità di riportare in funzione i link . Al social network servono, infatti, numerose segnalazioni positive da parte degli utenti” per rimettere online i contenuti.

Considerato che l’oscuramento è avvenuto per due giornali a breve distanza di tempo, l’ipotesi del bug tecnico è meno probabile, per cui quasi certamente si è avuto il classico abuso delle segnalazioni. Ogni contenuto su un social network, infatti, reca un tasto che consente di segnalare allo staff del social eventuali abusi.
Quello che è avvenuto, probabilmente, è che un certo numero di persone si sono spese a segnalare contenuti prima di un giornale e poi dell’altro (potrebbero essere anche persone diverse, ovviamente), facendo pervenire allo staff del social numerose segnalazioni indicanti come inappropriati i contenuti suddetti. Di conseguenza è scattato il blocco sugli articoli provenienti dai due indirizzi web.
A questo punto viene spontaneo chiedersi quante persone servano per creare quello che a tutti gli effetti è una censura in un social network, specialmente se consideriamo il rapporto con l’elevato numero di articoli dei due giornali che vengono quotidianamente condivisi.

È abbastanza plausibile dalle osservazioni in merito, e anche perché un controllo manuale di tutti i contenuti pubblicati sarebbe impossibile, ritenere che il controllo dei contenuti su Facebook, come del resto per altri social network, sia affidato ad un software automatico che analizza in prima battuta la presenza di eventuali termini presenti in una black list, e poi probabilmente controlla il numero dei “like” e il rapporto con le segnalazioni ricevute.
È interessante notare che entrambi i giornali hanno dovuto chiedere l’aiuto dei lettori per inviare segnalazioni “positive” a Facebook. Sembra difficile credere che i due giornali non abbiano la possibilità di chiedere una riconsiderazione dell’oscuramento del loro articoli, eppure non pare che abbiano ricevuto un trattamento assai differente da quello di un comune utente privato.
È quindi probabile che tutto il processo sia automatizzato, e che solo in ultima battuta vi sia un intervento umano sulle segnalazioni.

Sorprende non poco, quindi, doversi rendere conto che anche un giornale, il quale è soggetto ad una serie di obblighi burocratici ma nel contempo gode di prerogative come quelle sancite dall’articolo 21 della Costituzione (“La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”) a tutela della libertà di stampa, sia nella realtà soggetto ai capricci di un numero, probabilmente nemmeno troppo consistente, di persone che tramite segnalazioni possono oscurarne i contenuti.
Si dirà che non è stato oscurato il sito dei giornali, ma solo i contenuti condivisi online sul social network, ma se consideriamo che la presenza su Facebook è oggi molto importante ai fini della visibilità e che i social network sono diventati terreno di dibattito politico e di circolazione delle idee, non può non colpire la facilità con la quale si può applicare una certa forma di censura.
Si dirà, inoltre, che Facebook non è altro che un sito privato, con le sue policy, per cui ha il diritto di oscurare utenti che violano le sue regole, ma a parte l’ovvia considerazione che non vi era violazione di alcuna regola, infatti i contenuti poi sono tornati tutti online, non si può dimenticare che Facebook agisce in regime di semi monopolio, alla stregua di un gestore telefonico o di un’autostrada. Certo, se voglio andare da Roma a Milano e il privato che gestisce l’autostrada mi vieta l’ingresso, posso sempre viaggiare per strada secondarie e arrivare comunque alla metà, ma ci impiegherò il doppio del tempo, probabilmente.
Insomma, in considerazione del “peso” enorme che alcuni siti privati hanno assunto in molti paesi, anzi transnazionalmente, non si può non porsi qualche domanda in merito.
Cosa accadrebbe, infatti, se qualcuna della grandi multinazionali che reggono la rete internet, decidesse di applicare policy censorie nei confronti di alcuni partiti politici o specifici gruppi?
È evidente che bloccare alcuni contenuti anche solo per alcuni giorni, per esempio a ridosso delle elezioni, potrebbe influenzare l’opinione pubblica, ed indirizzarla in un senso o nell’altro. Non pensiamo solo a Facebook, ma anche ad un motore di ricerca come Google, che potrebbe “evitare” di indicizzare alcuni contenuti, rendendone difficile il reperimento in rete.

Non dobbiamo dimenticarci che le grandi infrastrutture che reggono la rete sono principalmente in mano a queste multinazionali, i servizi online sono forniti da poche multinazionali, laddove la libertà della rete è sempre più delegata alle loro policy, ai loro termini di servizio, per cui la “vita” e la “morte” in rete dei contenuti viene sempre più demandata alle decisioni di queste aziende private.
In tale prospettiva ci si aspetterebbe un ruolo di primo piano da parte dei Governi, i quali dovrebbero mediare tra gli interessi economici delle multinazionali e le libertà degli individui, purtroppo vi è una sempre maggiore tendenza degli Stati a lasciare campo libero alle decisioni di tali aziende. In realtà sotto un certo aspetto è anche comprensibile, data la difficoltà e i tempi lunghi necessari per l’armonizzazione delle norme tra i vari Stati, in alcuni casi si preferisce lasciare campo libero alle multinazionali, e sfruttare le loro policy, che vengono cooptate quale normativa di riferimento, come ad esempio sta accadendo in sostanza in Italia con la recente delibera AgCom.

Se da un lato, quindi, i Governi lasciano spazio alle aziende private, consentendo loro di fare i propri interessi anche comprimendo i diritti degli utenti, dall’altro poi riscuotono dazio facendo pressioni su tali aziende quando può essere utile oscurare contenuti deleteri per uno Stato. Prendiamo il caso di Wikileaks, per il quale si ebbero enormi pressioni non solo sulle aziende che hostavano il sito, ma anche sul sito che raccoglieva le donazioni ed altri siti che fornivano servizi al portale di Assange.

Queste aziende sono quelle alle quali ogni giorno noi affidiamo, con fiducia, i nostri dati, le nostre informazioni, anche sensibili, e quindi parte della nostra stessa vita.
Ancora una volta ci accorgiamo che, forse, non dovremmo fidarci fino in fondo, visto che è così facile oscurare qualcosa in rete, fosse anche un giornale che gode di speciali prerogative. E che, soprattutto, mentre ci preoccupiamo della censura che un Governo può imporre alla rete, forse non facciamo troppa attenzione al potere privato di censura che agisce libero da controlli.