La strada sbagliata per il diritto all’oblio

Diritto all'oblioIl diritto all’oblio (right to be forgotten) e la protezione dei dati personali animano il dibattito in Spagna, dove l’Agenzia per la protezione dei dati personali (AEPD) ingiunge a Google di bloccare l’accesso a notizie pubblicate su giornali nazionali online che sono potenzialmente in grado di ledere la privacy delle persone in essi indicate. È il caso di un chirurgo portato in giudizio per negligenza medica, ma poi assolto, dove i giornali riportano solo la notizia del rinvio a giudizio ma non l’epilogo della vicenda.

A seguito dell’ingiunzione relativa a circa 100 links ed altrettanti articoli, i rappresentanti di Google hanno depositato ricorso in tribunale, dichiarandosi sconcertati dell’ingiunzione.
In breve l’Agenzia spagnola ha ingiunto a Google di rimuovere i link perché i giornali possono legalmente rifiutarsi di rimuovere gli articoli (pretendono un provvedimento di un giudice), per cui l’autorità si rivolge all’intermediario della comunicazione per ovviare al problema, essendo l’unica concreta possibilità residuale.

Ma, sostiene giustamente Google, in tal modo non si rimuove il problema, l’articolo rimane al suo posto e si impedisce solo il suo inserimento nel motore di ricerca di Google (ma non in altri motori di ricerca), praticamente si mette lo sporco sotto il tappeto sperando che nessuno lo noti.
Gli avvocati di Google hanno appunto evidenziato che l’Agenzia per la protezione dei dati non ha ingiunto a nessuno dei giornali online di rimuovere gli articoli incriminati, come sarebbe più giusto.
Hanno, inoltre, chiarito che in tutti i casi nei quali Google ha rimosso contenuti dai suoi indici si trattava di materiale dichiarato illegale in sentenze della magistratura, e che in assenza di una pronuncia di tale tipo non intendono rimuovere i link agli articoli, a meno che non si tratti di materiale chiaramente illecito come contenuti di pedopornografia.

Sul punto, in particolare sulla problematica del diritto all’oblio in relazione ai dati personali degli individui, vi è in corso una dibattito da anni, nel quale è intervenuta anche l’Unione Europea a mezzo del vicepresidente della Commissione Ue e commissario alla Giustizia e Libertà, Viviane Reding, la quale ha invocato una nuova legislazione sulla protezione dei dati personali che tenga conto di tutti i problemi relativi alla privacy sorti dopo la nascita dei social network. È indubbio che con l’avvento di internet è sorto un problema di rafforzare la tutela dei dati personali e di impedire una eccessiva diffusione in rete che possa sottrarre tali dati al controllo dei legittimi titolari, ma tale diritto deve essere equamente contemperato con il diritto all’informazione e alla manifestazione del pensiero e della critica.
In questo dibattito si tende a polarizzarsi su tesi estreme, da un lato invocando la libertà assoluta di scrivere quello che si vuole senza possibilità di limitazioni (a meno che non si tratti di reati, ovviamente), riproponendo notizie vecchie e non più di interesse attuale, dall’altro invece si vorrebbe attribuire per legge al singolo individuo il diritto esclusivo o quasi di stabilire come e quando le notizie riguardanti la sua persona possano essere pubblicate e riproposte, ottenendo anche la rimozione delle notizie nel momento in cui egli ritenga tali notizie lesive della propria reputazione. Se nel primo caso si può facilmente giungere ad una violazione della privacy delle persone, nel secondo, invece, si riscrive il concetto di interesse alla pubblicazione delle notizie, demandando la valutazione al singolo, il quale assume una posizione preminente di fronte all’interesse generale alla conoscibilità di certe notizie (pensiamo all’interesse che può avere un genitore di sapere che l’insegnante –anche privato- di suo figlio ha avuto condanne per reati sessuali).

 

Nel novembre del 2010 la Commissione Europea ha, appunto, dichiarato che il cittadino dovrebbe vedersi riconosciuto il diritto all’oblio quando i suoi dati non siano più necessari (non vi sia più un interesse pubblico) oppure voglia che i suoi dati siano cancellati (“should have the 'right to be forgotten' when their data is no longer needed or they want their data to be deleted”).
Questo approccio è però stato anticipato da varie proposte di legge, come quella italiana, della quale già abbiamo parlato, oppure una simile in Francia.
La soluzione francese, però, è di ispirazione diversa rispetto alla nostra, in quanto lì non si muove dal presupposto che si deve ridurre il tempo della memoria di internet quando l’interessato così desidera, ma si parte dall’idea che la memoria della rete debba essere accorciata quando un giudice ritiene, su istanza dell’interessato, che non vi sia, o non vi sia più, un interesse pubblico all’accessibilità delle notizie in rete.
L’approccio è completamente diverso perché non demanda insindacabilmente, o quasi, al singolo la decisione se la notizia deve essere rimossa o meno, ma si demanda al giudice terzo il bilanciamento opportuno degli interessi in gioco, cioè il diritto del singolo alla riservatezza dei suoi dati e il diritto dell’opinione pubblica ad essere informata e a reperire notizie di interesse pubblico. Si tratta di un approccio molto più equo, mentre l’approccio italiano sembra nascere da una diffusa paura delle nuove tecnologie, paura che è spesso sottesa alle leggi degli ultimi tempi.

Il diritto all’oblio, in realtà, nella sua accezione tradizionale si traduce in un divieto di riproposizione di fatti del passato per i quali è venuto meno l’interesse pubblico alla loro conoscenza, laddove le rielaborazioni del concetto di oblio in rete si muovono in direzione piuttosto differente, traducendo il diritto in questione in termini diretti ad espropriare la storia di alcuni episodi rilevanti per il pubblico, come ad esempio le condanne penali di alcuni.  
Dobbiamo a questo punto ricordare che nel nostro ordinamento giuridico il diritto all’oblio è già riconosciuto dalla giurisprudenza che lo rappresenta come il diritto a non restare indeterminatamente esposti ai danni ulteriori che la reiterata pubblicazione di una notizia può arrecare all’onore e alla reputazione del singolo individuo, a meno che, a causa di eventi sopravvenuti, il fatto precedente ritorni di attualità e rinasca un nuovo interesse pubblico alla notizia. In tal senso il diritto all’oblio nel nostro ordinamento è previsto, come ricostruzione giurisprudenziale, fin dagli anni ’70, ed è ritenuto addirittura uno dei diritti inviolabili dell’individuo. Secondo i giudici italiani, infatti, ulteriori pubblicazioni di una notizia potrebbero essere ritenute illecite se la notizia non è più rilevante dal punto di visto pubblico e può essere lesiva per il singolo, in questi casi si impone la rimozione della notizia, ma è un giudice terzo che decide sul punto, contemperando gli interessi in gioco.

Tornando in Spagna, al caso di Google, c’è da rilevare che esiste un pacifico errore di base nell’ingiunzione dell’AEPD, e cioè la notizia è pubblicata su giornali, mentre Google la indicizza soltanto, cioè ne presenta dei link o al massimo una cache. Quindi, se la notizia in sé viene ritenuta illecita, ma tale valutazione dovrebbe essere data da un giudice, l’ordine di rimozione dovrebbe essere diretto al giornale, non al motore di ricerca.
Se, invece, si ragionasse come fa l’AEPD, si avrebbe un indebito trasferimento della responsabilità di un articolo dall’autore (e l’editore) dell’articolo all’intermediario, in questo caso il motore di ricerca. L’escamotage dell’Agenzia spagnola, perché di questo si tratta, nasce dal fatto che i giornali si rifiutano di rimuovere la notizia in assenza di un provvedimento di un giudice, per cui si prova a costringere Google. Ma Google, in quanto intermediario della comunicazione, è soggetto alla direttiva ecommerce europea la quale prevede l’assenza di responsabilità da parte di questi soggetti. La stessa normativa prevede, di contro, l’obbligo di rimuovere i contenuti o di disabilitare l’accesso a tali informazioni non appena il provider venga effettivamente a conoscenza del fatto che le informazioni sono state rimosse dal luogo dove si trovavano originariamente, oppure che un organo giurisdizionale o un’autorità amministrativa ne abbia disposto la rimozione o la disabilitazione.
È quindi evidente che l’opposizione di Google all’ingiunzione dell’AEPD ha un senso sulla base di tale normativa e che l’Agenzia spagnola avrebbe, invece, dovuto ingiungere ai giornali la rimozione dei contenuti e non certo al semplice intermediario Google. Nel caso in cui i giornali si rifiutassero di fare ciò, l’Agenzia potrebbe rivolgersi alla magistratura per ottenere un provvedimento che li obblighi qualora la notizia sia davvero lesiva per gli interessati. È ovvio, invece, che se la notizia non ha alcun carattere di lesività, oppure l’interesse pubblico è maggiore, il provvedimento verrebbe negato.
Sussiste, infine, anche una ulteriore perplessità in quanto l’ingiunzione è stata inoltrata alla sola Google, come se Google fosse l’unico motore di ricerca esistente in rete. Se anche Google rimuovesse quei link, ci sarebbero ancora tanti motori di ricerca, certo con quote di mercato minori rispetto a Google, che indicizzerebbero ancora quelle notizie, pur sempre presenti sui giornali, per cui non si avrebbe nemmeno una reale tutela degli interessi del singolo.

Non resta, quindi, che attendere la pronuncia dell’autorità giudiziaria.