L'11 settembre 2012 si è conclusa la consultazione pubblica della Commissione Europea dal titolo "A clean and open Internet: Public consultation on procedures for notifying and acting on illegal content hosted by online intermediaries" (Internet pulito e aperto: Consultazione pubblica sulle procedure per la notifica e l'azione contro i contenuti illegali ospitati dagli intermediari online).
Si tratta di una fase della revisione della direttiva ecommerce, in particolare in relazione allo specifico aspetto delle disposizioni sulla responsabilità dei fornitori di hosting.
Come sappiamo, infatti, la responsabilità degli intermediari della comunicazione è regolata, insieme ad altri aspetti dell'ecommerce nonché della fornitura di servizi online, dalla direttiva europea 2000/31/CE, recepita in Italia dal decreto legislativo 70 del 2003. L'intenzione dell'Unione europea è quella di realizzare un mercato digitale comune ed impedire discriminazioni per i consumatori, favorendo attraverso la certezza giuridica sia le amministrazioni che le imprese.
Dopo 10 anni di vigenza la Commissione avviò una normale procedura di revisione della direttiva, la cui consultazione si concluse con l'intenzione di non modificare la direttiva perché ancora valida e adeguata alle esigenze del mercato europeo. Vi era però necessità di porre dei chiarimenti su alcuni alcuni aspetti della normativa, in modo da eliminare la frammentazione applicativa della direttiva.
La nuova consultazione, che si conclude in questi giorni, si occupa appunto di questi chiarimenti.
Il titolo della consultazione, "A clean and open internet", rimarca ovviamente l'esigenza sempre sentita dall'Europa di mantenere internet "aperto", ma nel contempo aggiunge ad ulteriore specificazione l'aggettivo "clean" che, purtroppo, non può non rimandarci al progetto CleanIt, supportato proprio dalla Commissione Europea, che consiste nella realizzazione di un framework non legislativo i cui principi generali sono posti attraverso un dialogo pubblico-privato. In breve si parla di cooperazione con le aziende al fine di eliminare contenuti illegali dal web.
La nuova consultazione si focalizza su pochi e specifici punti della direttiva ecommerce, in particolare sulla responsabilità degli hosting provider, e la procedura di notice and takedown, che nel testo viene genericamente definita "notice and action" (comunicazione e azione).
Nel materiale di supporto alla consultazione, costituito per lo più dall'elaborazione delle risposte alla consultazione del 2010, si sostiene che i problemi nell'applicazione della direttiva ecommerce riguardano principalmente l'effettiva conoscenza della illiceità di un contenuto, la consapevolezza (actual knowledge) dell'illiceità da parte del provider, la velocità (expeditiously) tenuta dall'intermediario nell'agire contro il contenuto illegittimo.
La Corte di Giustizia dell'Unione Europa ha chiarito (sent. 12/7/2011 caso C-324/09 L'Oreal – eBay) che la conoscenza dei contenuti illegali si può avere anche attraverso la comunicazione di un privato, ma che tale comunicazione non porta automaticamente consapevolezza del contenuto, e quindi non impone un'azione al provider. Tutto dipende dalle caratteristiche della comunicazione, fermo restando che la direttiva ecommerce non contiene norme specifiche in materia di notificazione della presenza di illeciti e quindi dei contenuti della notificazione stessa.
Il questionario si preoccupa anche del come evitare notifiche ingiustificate, ad esempio tramite la pubblicazione delle notifiche (come fa Google) oppure prevedendo sanzioni contro le notifiche abusive (come previsto dal DMCA). Questa problematica riguarda anche la prevenzione dell'eliminazione di contenuti legali, quindi la protezione della libertà di espressione dei cittadini.
Notice and action indica la procedura da applicare in caso di immissione di contenuti illegali online, procedura che termina con la disabilitazione dell'accesso al contenuto oppure con l'eliminazione del contenuto medesimo. Tale procedura è chiaramente ispirata alla notice and takedown del DMCA americano. La Commissione sostiene che il supporto a tale tipo di procedura sia rinvenibile nell'art. 14 della direttiva ecommerce (corrispondente all'art. 16 dell'italiano d.lgs 70/2003), e da questa premessa parte per costruire il questionario. L'idea di fondo è di ricostruire una legittimazione ad una procedura di notice and takedown a partire da una rivisitazione della direttiva ecommerce.
In realtà la direttiva sul commercio elettronico è il risultato di un compromesso politico tra l'industria e gli Isp, laddove la prima voleva inserire nelle norme un regime di notice and takedown, ma tale parte (pur prevista in un articolo, il 21) non fu regolamentata, ma lasciata alla autoregolamentazione volontaria. Con questo testo la direttiva ecommerce ha consentito di proteggere il quadro giuridico dell'Unione contro i tentativi di inserire disposizioni specifiche di rimozione di contenuti, in tal modo tutelando la libertà di espressione ed impedendo che i provider diventino gli sceriffi della rete.
Pur tuttavia è vero che la direttiva (considerando 49) prevede espressamente che gli Stati membri e la Commissione incoraggino l'elaborazione di codici di condotta, lasciandone però un carattere del tutto volontario in modo che le parti liberamente decidano se aderirvi o meno.
Nell'art. 14 della direttiva ecommerce, invece, non si menziona affatto la possibilità da parte dei titolari del copyright di inviare comunicazione che abbiano qualche conseguenza giuridica, infatti negli ordinamenti europei le conseguenze giuridiche sorgono solo a seguito di comunicazioni da parte di soggetti qualificati quali le autorità giudiziarie od amministrative.
Le procedure di segnalazione degli illeciti online sono, invece, previste esclusivamente dai termini di servizio di alcuni provider, anche perché essendo molti di questi americani, e prevedendo la normativa USA come obbligatorie tali procedure di rimozione, è più semplice per loro attuare una politica unica per tutti gli Stati. Ma, in Europa non esiste alcun obbligo giuridico di rimozione a seguito di notificazione di un privato, al massimo un obbligo di collaborazione, sotto forma di informazione all'autorità giudiziaria.
Il problema non è di poco conto, perché in realtà un provider non ha generalmente le competenze per stabilire la liceità o meno di un contenuto, valutazione molto complessa al punto che di solito è demandata a tribunali specializzati. Limitandoci alle violazioni del copyright, le più diffuse, la complessità deriva dal fatto che non è il file in sé ad essere illecito, ma l'uso che si fa del file, in quanto potrebbero insistere sul medesimo contenuto diversi diritti in capo a più titolari, oppure potrebbero entrare in gioco le libere utilizzazioni (fair use), cioè eccezioni al diritto d'autore. Ecco perché la consapevolezza dell'illiceità (actual knowledge) potrebbe aversi solo in presenza di una valutazione di un giudice.
Al momento vi sono alcuni Stati membri che hanno già approvato norme che consentono le procedure di notice and action incoraggiando la collaborazione tra le parti al fine di rimuovere celermente i contenuti illegali ospitati dagli intermediari della comunicazione. In relazione a tali normative, però, le organizzazioni per la difesa dei diritti civili accusano l'assenza di trasparenza delle procedure e le limitazioni democratiche che determinano. Il tutto, infatti, spesso avviene nel dialogo tra titolare del copyright e provider, quindi in assenza di controlli democratici sulle eventuali rimozioni e sulle possibili conseguenze in relazione alla libertà di espressione.
La consultazione della Commissione europea appare proprio focalizzata su questo modo di procedere nell'eliminazione dei contenuti illeciti online, spingendo nella collaborazione tra le parti in causa, ovviamente titolari del copyright e provider dove i cittadini, coloro che immettono i contenuti in rete, invece che essere considerati parti diventano un mero accidente all'interno della procedura medesima.
Non stupirà scoprire che l'approccio non è tanto diverso da quello proposto dal famigerato trattato ACTA, tanto sponsorizzato dalla Commissione europea ma poi bocciato dal Parlamento. È vero che ACTA è morto sotto il peso di 478 no, ma la Commissione non ha mai fatto mistero di vedere quel voto solo come un mero accidente di percorso nella realizzazione di un framework non legislativo che regoli internet sulla base di accordi demandati ai privati, alle multinazionali, specialmente americane. In tal modo la Commissione incoraggia gli accordi volontari tra le parti, del resto "accordo volontario" è molto più digeribile di "sanzioni stragiudiziali", così però si trasferisce la regolamentazione alle aziende, con tutte le conseguenze del caso. Insomma, stiamo sempre parlando di ACTA!