L’Onorevole Fava e l’emendamento L’Oreal

FavaQualche giorno fa abbiamo dato notizia dell’emendamento presentato dall’Onorevole Fava.
Nei giorni seguenti, in risposta alle numerose critiche piovute contro l’emendamento in questione, l’Onorevole Fava ha rilasciato alcune dichiarazioni a difesa della sua proposta.

Sulla Gazzetta di Mantova leggiamo: “Ho firmato l’emendamento come presidente della commissione anti-contraffazione – dice Fava – va recepita una sentenza della Corte europea sulla causa che L’Oréal ha vinto contro EBay, accusata di vendere prodotti contraffatti: non a caso in commissione il voto è stato unanime, col sì anche del governo. La ratio della norma sta nel fatto che i marchi vanno tutelati dal rischio contraffazione e dai download abusivi”.


Innanzitutto una sentenza non si recepisce, casomai si esegue, questo perché è l’interpretazione ed applicazione di una norma già esistente. Al massimo il recepimento dovrebbe riguardare la norma applicata nella sentenza citata che, nel caso in questione, è la sentenza del 12 luglio 2011 della Grande Sezione della Corte di Giustizia europea, caso C‑324/09.
La norma qui applicata (Electronic Commerce Regulations) è l’attuazione nel paese di riferimento (Inghilterra) della direttiva europea ecommerce che regola la responsabilità degli intermediari della comunicazione. Quindi la normativa esiste, sia quella generale (la direttiva) europea, sia quella di recepimento in Inghilterra. La Corte di Giustizia ha solo interpretato, ruolo specifico di un giudicante, le normative di riferimento applicandole al caso concreto.
Ovviamente la normativa in questione è presente anche in Italia (decreto legislativo 70 del 2003), ed è sostanzialmente identica alla direttiva ecommerce. Non si comprende cosa ci sia da “recepire”, casomai in futuro (rispetto alla data di pronuncia della sentenza) i giudici italiani (e non solo) dovranno tenere conto dell’interpretazione data dalla Corte europea nell’applicare le norme indicate.

Proseguendo, nella causa a cui si riferisce l’Onorevole Fava, eBay non era accusata affatto di vendere prodotti contraffatti, visto che eBay è un noto auction provider, cioè fornisce servizi di aste agli utenti che vendono prodotti. L’accusa era, piuttosto, di aver reso possibile lo svolgimento e la visualizzazione dei prodotti sul suo sito (ebay.co.uk), ed aver reso possibile la promozione attraverso il servizio pubblicitario AdWords di Google, in modo tale che un utente del motore di ricerca di Mountain View, alla digitazione di parole chiave corrispondenti a taluni marchi L’Oreal, veniva direzionato alle pagine presenti su eBay con in vista i prodotti in violazione dei diritti della casa francese.
Per la precisione, dei 17 articoli contestati ad eBay solo 2 erano contraffatti, gli altri erano solo in violazione dei diritti, trattandosi di prodotti non destinati al commercio oppure destinati a mercati diversi (importazione parallela).
Ovviamente non è questa la sede per una completa disamina della sentenza citata, ma in breve la Corte di Giustizia europea, interpretando la normativa in materia di responsabilità degli intermediari della comunicazione, ha sostanzialmente affermato che eBay è responsabile per le sue aste quando svolge per esse un ruolo attivo che gli permette di avere conoscenza o controllo sui dati memorizzati sui suoi server, ruolo consistente nell’ottimizzare la presentazione delle offerte in asta o nel promuoverle. E comunque rimane responsabile dal punto di vista civilistico nel momento in cui sia stato al corrente di fatti o circostante in base alle quali un operatore diligente avrebbe dovuto constatare l’illiceità delle aste in questione e, quindi, non abbia prontamente agito per rimuovere le inserzioni incriminate o disabilitarne l'accesso.

Questo è quanto interessa noi in questa sede, in quanto l’emendamento Fava (rif. Pag. 170) va a modificare la normativa in materia di responsabilità online, anche se in realtà la pronuncia della Corte sul punto responsabilità dei provider è solo incidentale rispetto alle questioni relative al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi di impresa (direttiva 89/104/CEE) e sul marchio comunitario (Regolamento CE 40/94).

Secondo la Corte, quindi, nel momento in cui eBay pubblicizza le sue aste tramite Google AdWords deve ritenersi un inserzionista, per cui il titolare del marchio può vietargli di fare pubblicità ad aste di prodotti lesivi dei suoi diritti, se tale pubblicità non permette all’utente di sapere o meno se i prodotti in asta sono provenienti dal titolare del marchio o da altri.
EBay, in particolare, alla luce del suo ruolo attivo nell’offrire ai merchants varie funzionalità per agevolare l’attività di vendita, non può usufruire dell’esenzione di responsabilità prevista per gli intermediari della comunicazione.
A tal proposito la Corte precisa che gli organi giurisdizionali nazionali possono ingiungere ad eBay di adottare provvedimenti tali da impedire le violazioni dei diritti del titolare, ed anche a prevenire nuove violazioni, fino a sospendere gli account dei venditori autori delle violazioni.

In sostanza eBay ha perso la causa e non si capisce quale ulteriore tutela debba essere fornita ai titolari dei diritti (come L’Oreal) per difendersi dai provider (come EBay), se già la Corte di Giustizia ha sancito che nella normativa attuale sono presenti tutti gli strumenti sufficienti a tale scopo, tanto è vero che li ha applicati al caso specifico.
La Corte di Giustizia, infatti, non ha emanato nuove norme, ruolo che non gli compete, per cui non si comprende esattamente da dove si ricavi la necessità di una modifica nel senso previsto dall’emendamento L’Oreal presentato dall’Onorevole Fava.

Ancora, l’Onorevole Fava precisa ulteriormente sul Corriere della Sera: “La pirateria online produce 200 miliardi di dollari di danni all'economia mondiale. L'Italia è tra i Paesi con il più alto tasso di download illegale. Bisogna fare qualcosa. Anche perché qui negli Usa mi hanno chiaramente detto che se non regoliamo il settore, i dazi commerciali rimarranno altissimi”. E, aggiunge: “Voglio comunque precisare che il cosiddetto emendamento Fava in nessun modo impone la disconnessione del provider, ma soltanto lo obbliga a tener conto delle segnalazioni che riceve, assumendosene la responsabilità se decide, in piena autonomia, di non tenerne conto, esattamente come prevede espressamente una direttiva europea”. Per cui, sostiene, sarebbe sempre un giudice a dover decidere.

In realtà l’emendamento Fava prevede, tra l’altro, la seguente aggiunta all’articolo 16, comma 1, del decreto legislativo 70 del 2003: “b) alla lettera b) dopo le parole: «autorità competenti» sono inserite le seguenti: «o di qualunque soggetto interessato, »”.
L’articolo in questione, quindi, diverrebbe: “1. Nella prestazione di un servizio della società dell’informazione, consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non è responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio, a condizione che detto prestatore:
a) non sia effettivamente a conoscenza del fatto che l’attività o l’informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illiceità dell’attività o dell’informazione;
b) non appena a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti o di qualunque soggetto interessato, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso”.

Quindi, a leggere l’articolo come lo vorrebbe l’Onorevole, esso in effetti non impone la disconnessione del provider.
Tale disconnessione dobbiamo intenderla come il distacco della linea telefonica (o accesso ad internet) che avverrebbe a seguito di una comunicazione di un interessato della presenza di contenuti illeciti immessi da un certo utente, praticamente un provvedimento restrittivo in stile Hadopi francese, ma decisamente più limitativo dei diritti dei cittadini perché almeno la Hadopi prevede 3 comunicazioni (strikes) effettuate da un’autorità amministrativa e, successivamente, il ricorso al giudice per ottenere, a seguito di 3 violazioni del diritto d’autore, un possibile “distacco del provider”.
Se l’emendamento Fava prevedesse il distacco, saremmo invece in presenza di un provvedimento restrittivo che si attua sulla base di una sola comunicazione da parte di un privato (il titolare dei diritti, quindi presunta parte lesa e parte in causa) senza alcun intervento di autorità, amministrative o giudiziarie. Una cosa impensabile.
Ma, per fortuna, l’Onorevole ci rassicura (?!) che non è così, che non è un “distacco del provider”. Di che si tratta, invece?

Si tratta della rimozione del contenuto immesso da un utente del provider, provvedimento preso dal provider in presenza della comunicazione di “un qualunque interessato”, sempre in assenza di qualsivoglia intervento di autorità, amministrative o giudiziarie. Perché, è vero che il provider potrebbe anche non tener conto della segnalazione che riceve da un qualunque interessato, ma a quel punto diverrebbe corresponsabile del contenuto immesso nel caso si rivelasse davvero illecito. Considerato che la valutazione di un illecito in materia di diritto d’autore è complessa, al punto che se ne occupano sezioni specializzate della magistratura, è impensabile che un provider abbia le competenze per una tale valutazione e quindi si possa davvero ritenere “in piena autonomia” nel prendere la decisione di rimuovere o meno. Probabilmente il provider finirà per rimuovere il contenuto segnalato per paura di doverne pagare le conseguenze.

Siamo sempre nell’ottica della privatizzazione estrema dei diritti delle multinazionali, che decidono senza alcun contraddittorio cosa è lecito e cosa non lo è. Questo prevede l’emendamento Fava, mentre l’attuale formulazione italiana della normativa prevede che la rimozione avvenga solo a seguito di una richiesta dell’autorità giudiziaria od amministrativa (magistratura o polizia), e non di un “qualunque interessato”, dizione fin troppo generica e foriera di difficoltà interpretative se non addirittura di abusi.

In conclusione, anche considerando che le parole dell’Onorevole possono essere state sintetiche e forse imprecise, appare ovvio che l’emendamento non è ricollegato alla necessità di “recepire” alcuna sentenza della Corte di Giustizia europea, appare in contrasto con recenti posizioni dell’Europa, e soprattutto interverrebbe in un momento nel quale l’Europa dichiara di voler specificare ulteriormente la normativa in materia, la qual cosa dovrebbe suggerire ad un legislatore accorto di attendere le determinazioni dell’Unione per non trovarsi in contrasto con esso col rischio di aprire una procedura di infrazione contro il nostro paese. Ed infine appare senz’altro ben più “pericoloso” di quanto dica l’Onorevole firmatario.

Rimane, a questo punto, il dubbio sulla motivazione sottesa a tale emendamento, se non ché il viaggio negli Usa e le parole dell’Onorevole (“Anche perché qui negli Usa mi hanno chiaramente detto che se non regoliamo il settore, i dazi commerciali rimarranno altissimi”) potrebbero far pensare che sia un tentativo di ingraziarsi gli Usa che da tempo confondono gli interessi economici delle proprie multinazionali con le esigenze di politica estera, finendo per esercitare pressioni non proprio lievi sugli Stati europei per l’approvazione di leggi draconiane (Sinde in Spagna) ed imponendo addirittura le proprie leggi ad altri Stati e a cittadini stranieri.