Continua a far discutere l’ordinanza del tribunale di Roma che inibisce a Yahoo la pubblicazione, all’interno del suo motore di ricerca, di link che conducono a siti non ufficiali riproducenti in tutto o in parte il film About Elly. Come si può leggere dal testo dell’ordinanza il titolare dei diritti ha portato in tribunale Google, Microsoft e Yahoo per ottenere la rimozione di link ai siti non ufficiali. Per i primi due motori di ricerca il giudice ha accertato che non sono soggetti alla giurisdizione italiana, poiché l’attività del motore di ricerca dipende direttamente dalla capogruppo americana, mentre per Yahoo, “quale provider gestore del servizio di Web Search”, si è pervenuti ad un provvedimento di inibitoria ritenendo accertato, sia pure in via cautelare, il “contributory infringment”, cioè la violazione indiretta, o agevolazione, linkando a siti che consentono il download o la visione in streaming del film oggetto del ricorso.
Il giudice, pur riconoscendo le prerogative degli intermediari della comunicazione, come previste dal D. Lgs 70 del 2003, in attuazione della direttiva europea ecommerce, ritiene però che sussista una responsabilità di Yahoo nella qualità di gestore di un servizio di posizionamento, e quindi nell’attività di caching, come richiamato dall’art. 15 del D. Lgs 70 del 2003.
Poi, però, il giudice fa riferimento ad una pronuncia della Corte di Giustizia europea in merito ad una disputa tra Vuitton e Google, quest’ultimo quale gestore del servizio di posizionamento, ma in quel caso, in verità, si faceva riferimento all’uso di marchi, cioè delle keywords presenti direttamente nei server di Google, e quindi si richiamava l’art. 14 della direttiva, riferito all'hosting.
Nel caso in questione, invece, si fa riferimento ad una attività diversa, cioè a link che puntano a siti con contenuti presunti illeciti, i quali siti, e conseguentemente anche i contenuti, non si trovano sui server di Yahoo (quindi non è hosting), per cui il giudice esigerebbe che Yahoo controllasse i contenuti di siti terzi. Lasciando da parte l’ovvia considerazione che tali contenuti potrebbero mutare in continuazione, e il controllo, anche successivo ad una diffida da parte del titolare dei diritti, sarebbe piuttosto complicato da attuare e in ultima battuta inesigibile, giova ricordare che la normativa di cui al decreto legislativo 70 del 2003 è scritta al fine di impedire il sorgere di una responsabilità automatica degli intermediari della comunicazione nel momento in cui veicolano, conservano o fanno transitare contenuti illeciti sui propri server.
È vero altresì che l’art. 156 della legge sul diritto d’autore (legge 633 del 1941), così come innovato dal decreto legislativo 140/2006 in attuazione della direttiva europea Ipred, prevede che “chi ha ragione di temere la violazione di un diritto di utilizzazione economica a lui spettante in virtù di questa legge oppure intende impedire la continuazione o la ripetizione di una violazione già avvenuta sia da parte dell'autore della violazione che di un intermediario i cui servizi sono utilizzati per tale violazione può agire in giudizio per ottenere che il suo diritto sia accertato e sia vietato il proseguimento della violazione”, ma l’articolo prosegue anche precisando al comma 2 che “sono fatte salve le disposizioni di cui al decreto legislativo 9 aprile 2003, n. 70”. Ciò vuol dire che le norme di recepimento della direttiva ecommerce prevalgono e tali norme prevedono l’irresponsabilità dell’intermediario i cui servizi sarebbero utilizzati per tale violazione, nonché l’assenza di un obbligo di sorveglianza.
Nello specifico l’intermediario ha un obbligo di collaborazione con l’autorità giudiziaria, per cui in caso di notification qualificata, cioè rivolta direttamente dall’autorità giudiziaria all’intermediario, questi deve ottemperare all’ordine e solo non ottemperando sorge una sua responsabilità civilistica. Non esiste invece un analogo obbligo in caso di notification da parte di privati, in quanto la scelta della normativa europea, a differenza di quella statunitense (DMCA) che espressamente prevede la possibilità da parte di un privato di chiedere all’intermediario la rimozione di contenuti presunti illeciti (ma di contro il notificante diventa direttamente responsabile nei confronti dell’utente nel caso in cui vengano rimossi contenuti leciti), è stata fin dal primo momento di imporre la valutazione dell’illiceità di un contenuto alla sola autorità giudiziaria. Quindi, in conclusione, a seguito di una diffida da parte del titolare del diritto non sorge alcun obbligo da parte dell’intermediario, a parte quello di collaborazione con l’autorità giudiziaria.
Secondo il giudice, invece, a seguito della diffida del privato il motore di ricerca sarebbe in grado di effettuare un controllo successivo e impedire l’indicizzazione e il collegamento con contenuti illeciti. In realtà ciò è sicuramente vero, ma sorge innanzitutto il problema di stabilire l’illiceità dei contenuti che, come detto sopra, secondo la normativa europea ed italiana è compito che spetta solo all’autorità giudiziaria. In caso contrario, infatti, non essendo il titolare del diritto responsabile, in quanto non esiste alcuna norma che prevede ciò, nei confronti dell’utente che ha immesso sui server dell’intermediario un contenuto ritenuto illecito ma poi risultato del tutto lecito, si aprirebbe la strada ad una massa di diffide a rimuovere contenuti senza alcun effettivo controllo, diciamo sparando nel mucchio. Alla fine al massimo si potrebbe avere per la rimozione del contenuto una responsabilità contrattuale dell’intermediario nei confronti dell’utente, se esiste un contratto (e quindi non in presenza di servizi gratuiti) e se un giudice ravvisa un danno (e quindi non in presenza di contenuti non commerciali ma immessi in rete al solo fine di condivisione).
Ovviamente in tale modo si aprirebbe anche la strada ad una effettiva privatizzazione della giustizia, fornendo ad aziende private un potente mezzo di pressione sugli intermediari della comunicazione, senza nessuna responsabilità in merito alle segnalazioni anche se risultanti errate. Che poi, stranamente, è proprio la strada che vorrebbe percorrere l’AgCom per il futuro del diritto d’autore in Italia, in contrasto con le direttive comunitarie.
Con ciò non possono non sorgere dubbi sul provvedimento di urgenza del giudice di Roma. Questa pronuncia colpisce direttamente gli hyperlinks, cioè la base della comunicazione in rete e la struttura portante della rete medesima. I dubbi non possono che aumentare se solo si pensa che, anche se Yahoo rimuovesse i link in questione, questi permarrebbero su tutti gli altri motori di ricerca, e, soprattutto, i contenuti illeciti (o presunti tali) rimarrebbero al loro posto.
Invece, giova ricordarlo, la normativa in materia obbliga il motore di ricerca ad agire “prontamente per rimuovere le informazioni che ha memorizzato, o per disabilitare l’accesso, non appena venga effettivamente a conoscenza del fatto che le informazioni sono state rimosse dal luogo dove si trovavano inizialmente sulla rete o che l’accesso alle informazioni è stato disabilitato oppure che un organo giurisdizionale o un’autorità amministrativa ne ha disposto la rimozione o la disabilitazione”. L’art. 15 del decreto 70 del 2003, in attuazione della direttiva ecommerce, indica chiaramente che la strada da percorrere è quella di chiedere la rimozione dei contenuti originali, e non dei link a tali contenuti, per i quali il provider non è responsabile.
Altra osservazione riguarda il tipo di ordine rivolto a Yahoo, cioè di “inibire la prosecuzione e la ripetizione della violazione dei diritti di sfruttamento economico”. In tal ordine ci sono due errori, innanzitutto la mancata individuazione dei contenuti (link) da rimuovere, e un ordine non dovrebbe essere generico, anche in considerazione del fatto che, parrebbe, nemmeno il ricorso conteneva l’individuazione dei link presunti illeciti. Cioè si porrebbe a carico di Yahoo l’onere di scoprire quali sono i link e poi verificarne l’illiceità dei contenuti linkati.
Inoltre l’inciso “ripetizione” sembrerebbe far ritenere che sia posto a carico del motore di ricerca anche il controllo al fine di impedire la successiva indicizzazione dei medesimi contenuti, con ciò imponendo a Yahoo un controllo preventivo sul proprio indice che da un lato appare in contrasto con l’assenza di un obbligo di sorveglianza previsto dalla normativa in materia, e dall’altro renderebbe automaticamente corresponsabile Yahoo di eventuali violazioni commesse a mezzo dei propri servizi, in quanto appunto si è adoperato per controllare i contenuti.
Se dovesse passare questo orientamento possiamo ritenere che la risposta di Yahoo sarà di adeguarsi agli altri motori di ricerca, spostando la gestione del web search a carico di Yahoo Usa. Comunque Yahoo ha già annunciato di volersi appellare contro tale decisione, contestando in particolare “un’errata interpretazione nell’ordinanza decisa dal giudice, che vuole attribuire ai motori di ricerca la responsabilità del contenuto creato o ospitato da terzi”, decisione che “può addirittura portare a gravi conseguenze restrittive sulla libera espressione in internet”.
Non rimane che attendere gli ulteriori sviluppi.