Come già argomentato in passato la legge sul cosiddetto legittimo impedimento, la n. 51 del 2010, è stata ritenuta in contrasto con la normativa costituzionale, e quindi dichiarata parzialmente illegittima dalla Corte Costituzionale con la sentenza del 13 gennaio 2011 n. 23, così come si può leggere nel dispositivo pubblicato a mezzo comunicato stampa.
“LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 4, della legge 7 aprile 2010, n. 51 (Disposizioni in materia di impedimento a comparire in udienza);
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 3, della legge n. 51 del 2010, nella parte in cui non prevede che il giudice valuti in concreto, a norma dell’art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen., l’impedimento addotto;
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale relative all’art. 1, commi 2, 5 e 6, e all’art. 2 della legge n. 51 del 2010, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 138 della Costituzione, dal Tribunale di Milano, sezione X penale, e dal Giudice per le indagini preliminari presso il medesimo Tribunale, con le ordinanze indicate in epigrafe;
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale relative all’art. 1, comma 1, della legge n. 51 del 2010, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 138 della Costituzione, dal Tribunale di Milano, sezione I penale e sezione X penale, e dal Giudice per le indagini preliminari presso il medesimo Tribunale, con le ordinanze indicate in epigrafe, in quanto tale disposizione venga interpretata in conformità con l’art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen”.
La legge in questione sostanzialmente prevedeva una protezione per 18 mesi per il Presidente del Consiglio e i Ministri nei confronti di procedimenti giudiziari relativi anche a reati extra funzionali. Ovviamente l’intenzione era che nei 18 mesi, che scadono il prossimo ottobre, sarebbe intervenuta una modifica per integrare a livello costituzionale prerogative simili.
La Consulta è intervenuta con un provvedimento complesso, discostandosi nella metodologia ma non nelle conclusioni dalle precedenti pronunce relative a norme analoghe, il lodo Schifani e quello Alfano. Infatti in questo caso non si è pervenuto ad una pronuncia di totale illegittimità della legge, ma si è distinto tra le varie norme. L’articolo 1, comma 4, che consentiva alla Presidenza del Consiglio di attestare che l’impedimento del Presidente del Consiglio o di un Ministro fosse continuativo, rendendo automatico il rinvio per un periodo non inferiore a sei mesi, è stato dichiarato incostituzionale, mentre per il comma 3, il quale prevede il rinvio su richiesta di parte dell’udienza, si è avuta una pronuncia additiva, nel senso che la norma deve ritenersi integrata con l’articolo 420 ter, comma 1, del codice di procedura penale, che prevede che sia il giudice ad esercitare il potere di valutare in concreto l’impedimento addotto dall’imputato, così stabilendo se è assoluto o meno.
Infine per il comma 1, dove sono disciplinate le fattispecie che determinano il legittimo impedimento, si è adottata una pronuncia interpretativa di rigetto disponendo che tale comma deve essere interpretato in conformità del suddetto articolo 420 ter, comma 1.
La Corte non ha minimamente toccato le altre norme della legge, che rimangono in vigore fino alla scadenza dei 18 mesi, se non verranno ulteriormente prorogate, o se non verranno abrogate da un referendum.
In realtà, a ben vedere, la pronuncia della Consulta ha toccato il nucleo fondamentale della norma, modificandola in maniera tale che parlare di pronuncia interpretativa è quasi un eufemismo, visto che così come è adesso la legge 51 del 2010 è sostanzialmente svuotata di ogni contenuto, e che, sulla base della pronuncia della Consulta, si applica anche alle massime cariche dello Stato la normativa prevista da sempre nel codice di rito per tutti, in ossequio al principio di uguaglianza dei cittadini.
A seguito di tale sentenza, quindi, il giudice si riappropria del potere di valutare l’impedimento addotto dall’imputato, e di stabilire se sussiste o meno il carattere assoluto dello stesso, in relazione allo svolgimento di funzione inerenti alla carica di governo, e vengono quindi espunte dal nostro ordinamento le norme speciali previste per le massime cariche dello Stato che eliminavano qualsiasi valutazione del giudice riducendolo ad un mero passacarte in presenza di imputati d’alto rango i quali avrebbero avuto, con la legge 51, il potere di attestare da soli la legittimità dell’impedimento e la continuità dello stesso, a differenza di quanto accade con i comuni cittadini, mentre il giudice aveva l’obbligo di ricevere il certificato della Presidenza del Consiglio senza possibilità alcuna di sindacarlo.
La legge sul legittimo impedimento, quindi, introduceva una deroga al regime processuale comune a favore del titolare di una carica governativa, così creando una prerogativa che, a detta della Corte, è in violazione del principio di uguaglianza dei cittadini e non può avvenire a mezzo di legge ordinaria, in tal modo ponendosi nel solco della precedente pronuncia relativa al lodo Alfano, e discostandosi parzialmente invece da quella relativa al lodo Schifani che non menzionava il principio di rigidità costituzionale (art. 138) così riconducendo l’istituto di cui alla legge nell’ambito delle sospensioni dei processi e non delle prerogative o delle immunità.
Vista in tal modo la legge sul legittimo impedimento secondo la Corte non regge al vaglio costituzionale e deve essere in parte dichiarata illegittima, in parte rivista alla luce dei principi costituzionali, facendo così rivivere, anche per il Presidente del Consiglio, le norme che valgono per i comuni cittadini. La Corte vuole anche rispondere alla solita polemica politica, chiosando: “Il principio della separazione dei poteri non è violato dalla previsione del potere del giudice di valutare in concreto l'impedimento, ma, eventualmente, soltanto dal suo cattivo esercizio, che deve rispondere al canone della leale collaborazione”. Secondo i giudici la leale collaborazione fra i diversi poteri dello Stato deve realizzarsi mediante una serie di soluzioni ispirate al coordinamento dei rispetti impegni.
In conclusione è evidente che dopo quattro bocciature di norme similari tendenti ad introdurre prerogative od immunità per alte cariche dello Stato, a differenza dei comuni cittadini, non residua spazio ulteriore per norme del genere.
Nel caso in cui un giudice, dopo la pronuncia della Corte, dovesse rigettare una richiesta di rinvio avanzata da un’alta carica dello Stato imputata in un processo penale, è palese che si potrebbe avviare un conflitto di attribuzione dinanzi alla stessa Corte Costituzionale, e ciò potrebbe portare ad ulteriori pronunce della Consulta in merito, così specificando ulteriormente il suo orientamento in materia. È altresì vero, però, che tali rinvii alla Consulta non sospenderebbero il procedimento giudiziario ordinario.
Sulla premessa, quindi, che il principale punto di contrasto con la carta costituzionale è dato dall’impossibilità di inserire nel nostro ordinamento privilegi di tal fatta a mezzo di leggi ordinarie, si è pure avanzata l’ipotesi di modifiche della Costituzione sul punto. Giova comunque ricordare che la Corte Costituzionale ha in passato espresso la sua opinione sulla possibilità che il suo giudicato si spinga anche a norme di rango costituzionale. Infatti, nella sentenza n. 1146 del 1988 affermava: “La Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono i principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all'essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana. Non si può, pertanto, negare che questa Corte sia competente a giudicare sulla conformità delle leggi di revisione costituzionale e delle altre leggi costituzionali anche nei confronti dei principi supremi dell'ordinamento costituzionale”.
Quindi, anche una legge di rango costituzionale sarebbe assoggettata al giudizio della Consulta, e potrebbe essere dichiarata illegittima se ritenuta in contrasto con i principi fondanti della Costituzione, quelli previsti nei primi articoli della Carta. Questa argomentazione vale a maggior ragione per una proposta di legge che si avanzò qualche tempo fa, la quale prevedeva che l’esercizio dell’azione penale nei confronti della massime cariche delle Stato fosse non impedita, oppure il processo fosse da sospendersi, bensì fosse necessaria la comunicazione al Parlamento, il qual,e a suo discrezione, avrebbe potuto sospendere o meno il processo. In tal modo non si sarebbe più di fronte ad una immunità automatica ma ad una sorta di autorizzazione a procedere, più simile alla vecchia autorizzazione a procedere di cui all’art. 68 della Costituzione, in passato abrogato. In verità anche tale norma sarebbe, come chiarisce la Corte, soggetta al suo giudizio, e potrebbe essere ritenuta in contrasto con i principi costituzionali, in particolare perché la ratio sottesa sarebbe decisamente ben diversa rispetto a quella di cui all’art. 68, norma prevista dai padri costituenti per difendere il dissenso parlamentare da indebite pressioni governative, e non certo per inserire nel nostro ordinamento dei privilegi od immunità per i politici.