La Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza del 29 marzo 2011 , ricorso n. 47357/08 (Alikaj e altri contro Italia), ha affermato che l’applicazione della prescrizione, se ha l’effetto di impedire la punizione del colpevole, è una misura incompatibile con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Nel caso specifico si trattava di un ricorso presentato dai parenti di un giovane ucciso durante un inseguimento di polizia, dove l’agente era risultato colpevole di omicidio colposo a seguito di sentenza della Corte d’assise italiana, emessa però 11 anni dopo il fatto. La Corte aveva applicato le attenuanti con la conseguenza di far scattare la prescrizione, a causa del troppo tempo trascorso dal fatto.
Successive impugnazioni erano stato rigettate, per cui i parenti di Alikaj si erano rivolti alla Corte di Strasburgo.
La Corte di Strasburgo ha dato loro ragione su tutta la linea, innanzitutto evidenziando le lacune del sistema penale italiano, in particolare le carenze nella fase di svolgimento delle indagini, in una prima fase assegnate ai superiori degli agenti coinvolti nel fatto. Ma soprattutto la Corte ha posto sotto osservazione l’istituto della prescrizione, così come risultante a seguito di varie riforme negli anni, la quale prescrizione, secondo la Corte, deve essere considerata senza dubbio tra le misure inammissibili, se ha l’effetto di impedire la condanna di un imputato che non subisce nemmeno una sanzione disciplinare.
Secondo la Corte vi è stata, quindi, non solo una violazione sostanziale ma anche procedurale dell’articolo 2 della Convenzione europea, che riconosce il diritto alla vita. Infatti, l’obbligo di proteggere il diritto alla vita impone di assicurare con tutti i mezzi una reazione adeguata affinché le violazioni del diritto siano represse e sanzionate (punto 94). Il procedimento, sottolinea la Corte, deve soddisfare gli imperativi dell’obbligo di proteggere la vita da parte dello Stato, che non deve in alcun caso lasciare impunite le offese alla vita. E la Corte aggiunge che ciò è indispensabile per mantenere la fiducia della collettività e garantire la sua adesione allo Stato di diritto, nonché per sopprimere ogni parvenza di tolleranza di atti illegali o di collusione con essi.
La conclusione (punto 111) è di dura condanna verso il sistema penale italiano che, lungi dall’essere rigoroso, come è stato applicato nella fattispecie non poteva generare alcuna forza dissuasiva idonea ad assicurare la prevenzione di atti illeciti. Per questo motivo la Corte decide nel senso che vi è stata violazione dell’articolo 2 della Convenzione, e condanna lo Stato italiano al pagamento di 155mila euro complessivi ai ricorrenti.
Questa sentenza, che diverrà definitiva se non impugnata dinanzi alla Grande Camera nei 3 mesi dalla pronuncia, non potrà non essere valutata nell’ampio dibattito che da tempo si ha in Italia, relativamente alla nuova riforma della prescrizione che il governo ha in procinto di presentare al Parlamento, e che tende a diminuire ulteriormente i tempi della prescrizione per gli incensurati. E questo nonostante già il governo abbia negli anni ridotto i tempi di prescrizione.
La nuova proposta di legge appare, quindi, in contrasto con la sentenza della Corte di Strasburgo, che pone l’esigenza che le vittime vedano riconosciuta la colpevolezza dell’autore del reato, sia esso incensurato o recidivo, anche in un’ottica di prevenzione generale, cioè per evitare che i cittadini perdano fiducia nella capacità dello Stato di reprimere le violazioni delle norme.
Nell’annoso dibattito tra i favorevoli e i contrari ad una riduzione dei tempi di prescrizione, finalmente qualcuno da voce a coloro che troppo spesso non sono considerati, cioè le vittime del reato. Gli argomenti, infatti, sono quasi sempre relativi alla posizione dell’autore del fatto illecito, talvolta dimenticando, così, che ogni reato ha una vittima, dove spesso la vittima è anche, o solo, lo Stato.
Tra i reati per i quali la prescrizione risulta fin troppo breve troviamo in particolare i reati in materia di lavoro, dove un morto sul lavoro difficilmente porta alla condanna di qualcuno, con doppia lesione della vittima, in quanto tale e per la giustizia negata.
In Italia i processi che si prescrivono, con danni evidenti per le vittime dei reati, sono oltre 150.000 (dati al 2009). La norma che prevede che la prescrizione decorra anche dopo la sentenza di primo grado è presente solo in Italia e in Grecia, negli altri paesi europei dopo il primo grado la prescrizione rimane sospesa o si interrompe. Addirittura l’istituto della prescrizione è del tutto sconosciuto negli Stati Uniti ed in Inghilterra.
Oggi finalmente la Corte europea dei diritti del’uomo si accorge dell’anomalia, e ci bacchetta, sancendo che anche le vittime dei reati devono essere tutelate. È vero che il processo deve avere una ragionevole durata, infatti l’eccessiva durata è anch’essa una violazione della Convenzione, ma lasciare impuniti i colpevoli non è una soluzione, semmai è una ulteriore ingiustizia.