RapidShare, un noto sito per la condivisione online di file, è stato condannato di recente, in Germania, per violazione di copyright, in quanto ospitava sui propri server ben 5.000 brani musicali illegali. La Gema, equivalente della Siae, ha portato RapidShare dinanzi al tribunale di Amburgo chiedendo come risarcimento 24 milioni di euro. A seguito della condanna il portale dovrà creare dei filtri che impediscano l’upload di file protetti da copyright e rimuovere i brani illegali.
RapidShare si era sempre difesa dagli attacchi delle major sostenendo di fornire un servizio di hosting, e per questo, ai sensi della direttiva europea 31/200/Ce sul commercio elettronico, non aveva il dovere di controllare i file caricati dagli utenti sul proprio spazio web. La normativa, infatti, prevede l’assenza di un obbligo generale di sorveglianza e anche di un obbligo di ricercare attivamente fatti e circostanze che indichino la presenza di attività illecite. Però, il comma 3 dell’articolo 17 prevede che il prestatore è civilmente responsabile del contenuto dei suoi servizi se, avendo avuto conoscenza del carattere illecito o pregiudizievole per un terzo del contenuto di un servizio al quale assicura l’accesso, non ha provveduto ad informarne l’autorità competente.
Il punto dolente, al quale si è appigliata la Gema, è proprio questo. Le major, o le associazioni di categoria, utilizzano questo strumento come leva per ottenere una condanna dei provider. Se il provider, si dice, fosse a conoscenza del contenuto illecito dei propri servizi, del proprio spazio web, e non informasse l’autorità giudiziaria, sarebbe responsabile in solido dei contenuti illeciti, come fosse un complice. Il punto è provare la conoscenza dell’illiceità dei contenuti.
Qui ultimamente si sta procedendo per presunzioni, non con prove certe, come nel caso in cui, per fare un esempio, sia attivo un servizio di indicizzazione dei contenuti, laddove i contenuti più cercati siano appunto illeciti. In molti casi, però, la decisione non può ritenersi davvero certa, la prova della conoscenza dell’illiceità non sussiste, e ci si accontenta della prova della conoscibilità, che non è la stessa cosa.
Insomma, dopo il caso The Pirate Bay, è ovvio che è in atto una tendenza a coinvolgere i provider nella responsabilità per la condivisione di contenuti illeciti, data la difficoltà ovvia di pescare i diretti colpevoli, cioè coloro che caricano online i contenuti illeciti. Se non si riesce a prendere i veri colpevoli, allora, le major cercano di far pagare i provider per reati da loro non commessi.
La difesa del diritto d’autore pare essere diventato il grimaldello per ottenere un controllo, e quindi maggiori guadagni, sulla rete, rea di essere fin troppo libera. Quella stessa rete che in Cina viene censurata pesantemente, tramite un software che sarà pre-installato su tutti i computer, che in Iran, grazie a Twitter e Facebook, rende difficile la vita agli Ayatollah, insomma la rete che apre le crepe nei regimi totalitari ed anche nelle democrazie, mostrando il vero volto del potere, e che quindi fa sempre più paura.