Il 30 dicembre 2009 è stato approvato il decreto legislativo del Ministero dei beni culturali per la “determinazione della misura del compenso per copia privata”, il quale estende il sistema dell’equo compenso già in vigore. L’equo compenso, infatti, è stato introdotto con il decreto legislativo 68 del 2003, come risarcimento agli autori per la riproduzione delle opere a fini privati, come previsto dall’art. 71 della legge sul diritto d’autore. A fronte della facoltà, accordata agli utilizzatori legittimi di un opera, di effettuare la cosiddetta copia privata dell’opera medesima, viene trattenuta una somma alla fonte, cioè a carico dei produttori di supporti e i dispositivi di archiviazione, somma che viene appunto girata alla Siae per poi distribuirla agli autori.
Fin’ora l’equo compenso è stato applicato a cd e dvd vergini, e ai masterizzatori. Con il decreto del dicembre 2009 l’equo compenso è stato “rideterminato”, ed esteso ad ulteriori dispositivi digitali, come hard disk, lettori mp3, chiavi usb e telefoni cellulari. Tutti questi dispositivi subiscono, quindi, un incremento del loro prezzo dovuto all’applicazione di questo compenso.
Clicca per caricare il video. Alcuni dati potrebbero essere inviati a YouTube. Leggi l'informativa Privacy
A tale estensione dell’equo compenso si erano opposte le associazioni dei consumatori, le cui istanze non sono state accolte, se non in minima parte, cioè per la limitazione (non eliminazione) dell’equo compenso sui cellulari, che ricevono un trattamento di favore (del resto siamo il paese dei cellulari), e per i computer dotati e non dotati di masterizzatore.
L’equo compenso per alcuni prodotti, sulla base del nuovo decreto, ha un importo che cresce proporzionalmente alla capacità di memoria dei dispositivi. Se consideriamo che computer, cellulari, e ogni dispositivo digitale dotato di memoria, tende con l’uscita delle nuovi versioni ad aumentare la quantità della memoria installata, perché i nuovi programmi sono sempre più sofisticati e quindi necessitano di maggiori spazi dove caricare i propri dati, possiamo ricavare che l’importo dell’equo compenso è destinato a crescere in misura sempre maggiore col tempo. Per fare un esempio, sugli hard disk il ricarico è del 10% circa, quindi proporzionalmente incide notevolmente sul prezzo finale.
L’art. 71 septies della legge sul diritto d’autore prevede, al primo comma, che i titolari dei diritti “hanno diritto ad un compenso per la riproduzione privata di fonogrammi e di videogrammi”, compenso “costituito, per gli apparecchi esclusivamente destinati alla registrazione analogica o digitale di fonogrammi o videogrammi, da una quota del prezzo pagato dall'acquirente finale al rivenditore, che per gli apparecchi polifunzionali è calcolata sul prezzo di un apparecchio avente caratteristiche equivalenti a quelle della componente interna destinata alla registrazione, ovvero, qualora ciò non fosse possibile, da un importo fisso per apparecchio. Per i supporti di registrazione audio e video, quali supporti analogici, supporti digitali, memorie fisse o trasferibili destinate alla registrazione di fonogrammi o videogrammi, il compenso è costituito da una somma commisurata alla capacità di registrazione resa dai medesimi supporti. Per i sistemi di videoregistrazione da remoto il compenso di cui al presente comma è dovuto dal soggetto che presta il servizio ed è commisurato alla remunerazione ottenuta per la prestazione del servizio stesso”.
La legge, quindi, garantisce ai titolari dei diritti una remunerazione per la copia privata, che può essere realizzata dai legittimi titolari dell’opera su qualsiasi supporto, purché effettuata da persona fisica per uso personale e senza violare le misure tecnologiche di protezione “di cui all'articolo 102-quater”. Le misure in questione sono le misure di protezione che i titolari possono apporre sulle loro opere, impedendo così la realizzazione della copia privata. In tale caso la copia privata è illegittima.
Il decreto sembra non aver tenuto conto di questo punto, perché applica indiscriminatamente a tutti i dispositivi digitali l’equo compenso, e lo applica anche a dispositivi non destinati alla registrazione di fonogrammi o videogrammi, come, ad esempio, i computer utilizzati per fini professionali o da enti pubblici, o le fotocamere digitali. In realtà il compenso è determinato su base statistica, per cui dovrebbe già tenere conto del fatto che non tutti realizzano le copie private di opere protette, e che alcuni dei dispositivi digitali non verranno mai utilizzati a tal fine. Ciò vuol dire che chi non usufruisce del diritto alla copia privata pagherà per gli altri che ne usufruiscono!
Questo prelievo forzoso è giuridicamente presente in tutti i paesi europei, in quanto previsto dalla direttiva europea sul copyright (2001/29/EC), la quale specifica che l’equo compenso è collegato al possibile pregiudizio sofferto dal titolare del diritto in conseguenza della riproduzione dell’opera. Per cui se non c’è alcun pregiudizio non ci dovrebbe essere nemmeno compenso.
Comunque le modalità con le quali l’equo compenso è stato applicato in Europa divergono da paese a paese. Su 27 stati, 22 prevedono il pagamento di tale compenso, mentre negli altri (Inghilterra, Irlanda, Lussemburgo, Cipro e Malta) tale prelievo non è previsto perché la copia privata di un opera protetta non è nemmeno consentita e viene considerata un reato penale.
La direttiva europea non stabilisce quali dispositivi devono essere assoggettati a tale prelievo, per cui ogni paese si regola diversamente. Quindi si hanno, di conseguenza, importi totalmente differenti. Ad esempio in Belgio si tassano anche le stampanti multifunzione, mentre in Italia no, però da noi sono tassati i sistemi satellitari.
Sull’equo compenso l’onorevole Melandri ha presentato un’interrogazione parlamentare nella quale chiede cosa si è previsto “per evitare che il costo dell’equo compenso ricada, in ultimo, sugli utilizzatori finali di prodotti tecnologici”. La risposta del governo (vedere pag. 56-57) è stata che “il predetto compenso non è da considerare come una tassa incamerata dallo Stato, ma un compenso che va a soggetti privati con il quale s’intende riconoscere quanto dovuto ai creatori delle opere dell’ingegno per il mancato acquisto dei supporti originali contenenti brani musicali, film e opere delle arti visive”, e che in realtà la rideterminazione del compenso doveva già avvenire nel 2006, per cui i titolari dei diritti avrebbero perso parte dei diritti loro dovuti in questo lasso di tempo, e in conclusione il decreto garantirebbe un equo contemperamento dei diritti degli autori e dei consumatori!
La parte interessante è quella che fa riferimento alla pirateria: “il tema della pirateria, soprattutto digitale, è attualissimo in tutti i Paesi del mondo. L’evoluzione tecnologica, che pure ha rappresentato e rappresenta un importante strumento di crescita e di diffusione della cultura e della democrazia, ha consentito al singolo utente privato la possibilità di violare le norme nazionali ed internazionali sul diritto d’autore. Tutto ciò, nonostante le aziende produttrici di contenuti digitali abbiano sempre più spesso fatto ricorso a sistemi di anticopia e antiaccesso che, in un modo o nell’altro, sono stati purtroppo spesso oggetto –come sappiamo – di violazioni”. Ma si dimentica che l’equo compenso riguarda la copia privata, cioè la copia di opere legittimamente ottenute, non certo la pirateria. Infatti, pagare l’equo compenso non autorizza affatto a scaricare file piratati, come parrebbe leggendo la risposta del governo, ma solo a realizzare una copia dell’opera legittimamente detenuta a fini esclusivamente privati.
La risposta all’interrogazione, quindi, appare del tutto fuori fuoco, a meno di non voler ritenere, da malpensanti, che in realtà l’equo compenso non sia altro che una sorta di indennizzo per i titolari di diritti (Siae ed autori) a causa dei danni dovuti alla pirateria. Indennizzo che, però, sarebbe posto a carico di coloro che detengono legittimamente opere.
Nella risposta, inoltre, è stato immediatamente evidenziato come l’equo compenso non sarebbe una tassa, questo perché se si riuscisse a dimostrare che in realtà l’equo compenso è una tassa, come la Tarsu ad esempio, esso sarebbe illegittimo. Sia la Cassazione che la Corte Costituzionale hanno spiegato a più riprese che per identificare come tributo un obbligo imposto dallo Stato occorre valutare, nel merito, se sussiste il carattere coattivo, cioè se il soggetto passivo dell’imposta sia libero di scegliere se versarla o meno. Se l’equo compenso fosse ritenuto una tassa esso sarebbe un aiuto di Stato all’industria degli audiovisivi, quindi vietato dalle norme comunitarie, e su di esso, tra l’altro, non potrebbe essere applicata l’Iva (una tassa su una tassa!). Proprio per questi motivi Altroconsumo ha presentato un ricorso alla Commissione Europea.
Considerato che l’equo compenso è in vigore in Italia già da qualche anno, anche se in maniera più limitata rispetto al decreto del 2009, è già possibile valutare gli effetti dell’estensione. L’equo compenso va ad incidere sui bilanci già in crisi delle industrie elettroniche. Già dopo la prima introduzione dell’equo compenso alcune aziende che producevano cd e dvd in Italia si sono trovate in difficoltà finanziarie, due hanno dovuto chiudere. Comprare oggi un dvd in Italia costa circa 1,5 euro, mentre in Germania lo si trova anche a 23 centesimi. Il punto non è tanto l’equo compenso in sé, ma come viene applicato, nel modo scelto si incentiva a comprare all’estero.
Le industrie non possono fare altro che scaricare l’equo compenso sull’ultimo anello della catena, il consumatore, che è per lo più anche ignaro della presenza di tale prelievo nel prezzo del dispositivo digitale. Ciò comporta un aumento, talvolta notevole, dei prezzi dei prodotti digitali, cosa che limita l’innovazione e lo sviluppo, principalmente dei nuovi modelli di distribuzione dei contenuti digitali. Pensiamo a chi scarica un mp3 dalla rete per poi spostarlo su un iPod. Pagherà l’equo compenso sia sull’hard disk, dove scarica il brano, sia sul lettore, da dove lo ascolta, oltre ovviamente al costo del brano.
Probabilmente gli italiani acquisteranno meno dispositivi tecnologici, e se proprio dovranno farlo li acquisteranno all’estero, in quei paesi dove l’equo compenso incide in maniera inferiore sul prezzo del prodotto. Come dire, non certo un aiuto per le aziende italiane!
Di contro i titolari dei diritti in Italia, le cui istanze sono state sostanzialmente recepite per intero nel suddetto decreto, beneficeranno di un notevole aumento delle loro spettanze, finendo per incassare nel corso del 2010 una somma pari a circa 300 milioni di euro, contro i 70 (equo compenso relativo a cd e dvd) incassati nel 2009, e questo senza fare nulla.
Se a tutto ciò aggiungiamo che, come risulta da una inchiesta di Altroconsumo, il 60% degli autori iscritti alla Siae è in perdita, appare evidente che è arrivato il momento di ripensare tutto il sistema. Quantomeno questo compenso, perché secondo il Ministro non è una tassa ma un compenso per gli autori, almeno non chiamiamolo più “equo”!