La nuova frontiera dell’antipirateria ormai è pronta e rodata, grazie al blocco di Wikileaks: si tratta del taglio dei flussi finanziari dei siti che violerebbero (il condizionale è d’obbligo) le norme sul copyright.
L’agenzia francese Hadopi, che si occupa della lotta contro la pirateria online, ha infatti annunciato la fase successiva della sua battaglia contro il file sharing non autorizzato, dichiarando che i primi risultati si avranno già nel 2012. Tra le nuove misure allo studio spicca la possibilità di chiedere ad un giudice un’ingiunzione verso i siti che offrono servizi finanziari ai siti accusati di violare le norme sul copyright.
Ad una attenta analisi l’annuncio trionfalistico del presidente Sarkozy, il quale ha addirittura sostenuto che Hadopi avrebbe ridotto del 35% la pirateria online, appare quasi una disfatta, come parrebbe suggerire il cambio di strategia dagli strumenti utilizzati fin’ora (filtraggio, blocco delle connessioni internet degli utenti…) al nuovo corso del blocco finanziario. Infatti, parrebbe che il concentrarsi da parte di Hadopi sul P2P, più che far diminuire il traffico illegale lo avrebbe spostato verso il download diretto o lo streaming video (il traffico su Megaupload in Francia sarebbe cresciuto del 35%). E i primi detrattori dell’Hadopi si stanno affacciando sulla scena politica!
Il cambio di strategia sembra avvenire in parallelo al sorgere del dibattito negli Usa su misure analoghe, previste dalle recenti proposte di legge denominate Protect Ip e Sopa. Il funzionamento di queste nuove norme allo studio è semplicissimo, si tratta di rendere corresponsabili i provider di servizi finanziari di eventuali reati commessi dai siti da loro serviti. L’industria del copyright informa il processore di pagamenti (Visa, PayPal…) che un certo sito forse sta violando le leggi, e il provider può scegliere: o tagliare fuori il sito accusato, oppure rispondere dell’eventuale reato in concorso col sito.
Pare evidente che nessuna azienda si caricherà il rischio di dover rispondere di eventuali reati altrui. Chiaramente “eventuali”, perché qui parliamo di una fase puramente cautelare, non certo di sentenze.
C’è ovviamente da chiedersi quanto la nuova strada potrà rivelarsi efficace laddove la vecchia non ha portato così grandi risultati. Del resto la rete ha sempre dimostrato di sapersi adattare perfettamente alle repressioni legislative. Quando Napster venne chiuso, il suo posto fu preso da Kazaa, poi eMule, BitTorrent, fino al recentissimo Tribler. Le soluzioni si sono susseguite nel tempo, con una continua innovazione nel campo dei protocolli decentralizzati, tanto che il progetto Tribler è addirittura finanziato dall’Unione Europea.
Certo, si potrà dire che per quanto riguarda i flussi finanziari la situazione è diversa, ma probabilmente si commetterebbe un errore comune, quello di ritenere coincidenti due cose che nei fatti non lo sono: Visa, Mastercard e PayPal sono lo strumento per far pervenire i finanziamenti a certi siti (come Wikileaks), non sono i finanziatori, e come da un Napster è nato un Kazaa, è possibile che i finanziatori trovino nuove strade per far pervenire i loro fondi ai siti che preferiscono.
Un esempio possibile è Bit Coin, un progetto di pagamenti elettronici del tutto decentralizzati e senza intermediari.
Insomma, sotto un certo profilo tutto questo inasprimento potrebbe anche essere positivo, perché potrebbe portare a nuove tecnologie in modo da superare gli attuali limiti del sistema.
Più o meno come accadde nel 1993, quanto l’Università del Minnesota annunciò che voleva essere pagata per l’uso commerciale di Gopher, il protocollo utilizzato allora per le pagine ipertestuali. Fu sufficiente quell’annuncio per far abbandonare Gopher in favore di HTML che ha reso così come è oggi il Web.
Probabilmente le nuove norme in materia di copyright farebbero sorgere un contrasto non solo tra la vecchia industria, quella del copyright, e l’industria della tecnologia (Google, Facebook, Twitter, Zynga, eBay, Mozilla, Yahoo, AOL e LinkedIn, che si sono schierate contro Sopa e Protect Ip), ma anche un contrasto con i provider finanziari che si troverebbero a dover decidere se rischiare accuse di concorso in violazione del copyright o perdere clienti su clienti.
In realtà qui bisogna chiarire un concetto, cioè non è possibile identificare le aziende e gli enti (come la Siae, la Riaa e l’Mpa) con gli artisti, in quanto gli enti rappresentativi dell’industria del copyright a malapena rappresentano una parte degli artisti, e nemmeno tanto bene, come ha chiarito ottimamente il commissario europeo all’Agenda Digitale, Neelie Kroes. La Kroes ha sostenuto che l’attuale sistema del copyright forse non è lo strumento giusto per “nutrire” (feed) l’artista, laddove spesso la maggior parte degli artisti si devono accontentare di guadagni minimi, e quindi c’è necessità di fare un passo indietro e tornare al passato, cioè mettere al centro l’artista.
C’è poco da aggiungere alle parole della Kroes. Se pensiamo che da anni i guadagni del settore dell’intrattenimento salgono a fronte della gran massa degli artisti sempre più poveri, è evidente che c’è qualcosa che non va. E questo qualcosa è dato dal fatto che gli enti rappresentativi non rappresentano altro che l’industria del copyright, e quindi tutelano gli interessi dell’industria, non degli artisti, a meno che tali interessi non coincidano, cosa che ormai non accade più se non parzialmente.
L’industria fa soldi vendendo un prodotto, e in tal senso il suo interesse è nel mantenere la cosiddetta economia della scarsità, cioè realizzare un mercato il più possibile chiuso e bloccato ai nuovi competitori. Ed è per questo che oppone strenua resistenza alle aperture del mercato verso sistemi di distribuzione alternativi, quelli digitali, introducendo nel contempo limitazioni che rendono il prodotto venduto un simulacro del prodotto originale, al punto che ai consumatori la cosa non conviene più di tanto. La migliore lezione in materia è data dal fallimento di Blockbuster, legata a vecchi sistemi di distribuzione, conseguente all’enorme successo di Netflix, che ha applicato le nuove strategie digitali. Ma si potrebbero fare molti esempi, come Amazon che ha spazzato via la scarsità nell’editoria, Tivo che ha rotto gli schemi nel suo settore, lo stesso YouTube, e così via.
Non è quindi un problema di pirateria, quanto piuttosto un errore di prospettiva. Molti voci, anche di esperti del settore, sostengono che la strada migliore sarebbe quella di abbracciare compiutamente le piattaforme di distribuzione digitale, cercando di ottenere una remunerazione soprattutto dal merchandising, dai concerti, dalle sponsorizzazioni, e così via. Ma tutto ciò implicherebbe un mutamento di strategie ed un salto nel “buio”, che nessuna azienda del settore è (ancora) disposta a fare. Quindi, tra la prospettiva di finire come Blockbuster, oppure imbarcarsi in un cambio di strategie, diventa molto più semplice gridare “al ladro” verso il parafulmine della pirateria, e fare lobbying per imporre leggi draconiane, le quali però hanno il pessimo vizio di imporre limitazioni ad altri settori e mercati, minando alla base la crescita e l’innovazione, e quindi in ultima analisi l’economia stessa di un paese. Parliamo delle responsabilità per i provider che minano l’intera industria che si basa su internet, ma non solo.
Oggi si cerca di imporre ulteriori limitazioni anche ai processori di servizi finanziari. E tutto questo in nome della tutela di mera interessi privatistici di un solo settore.
In sostanza stiamo sacrificando la crescita di molti altri settori, solo per mantenere un settore che non ha alcuna voglia di crescere, ed è ancora arroccato all’era pre-digitale (per usare parole della Kroes), e sulla vecchia idea che l’economia si regge solo sulla scarsità delle risorse. E questo settore riesce, con un sapiente lavoro di lobbying, a spostare l’intero costo della tutela dei suoi interessi economici sul settore pubblico, e quindi sui cittadini.
Ma, siamo sicuri che tutto questo convenga ai cittadini? Siamo sicuri che convenga porre a carico di uno Stato la stampa di 260.000 copie di volantini per avvertire che Hadopi può bloccare le connessioni internet in caso di violazione del copyright? Converrà, economicamente parlando, l’invio di milioni di lettere agli utenti di BitTorrent per avvertirli dei rischi che corrono in caso di download di file piratati? Siamo sicuri che la spesa di 12 milioni di euro l’anno per la Hadopi, a fronte di soli 10 rinviati a giudizio, convenga davvero?