Incamminandosi sulla strada di una nuova regolamentazione di un settore, è sempre buona cosa analizzare eventuali discipline implementate all’estero al fine di comprendere quali potrebbero essere i punti deboli nella sua applicazione. E questo pare proprio il caso della nota delibera AgCom, ormai in discussione da tempo in Italia, deputata appunto a regolamentare il diritto d’autore in rete.
A questo proposito torna significativa la vicenda, della quale già abbiamo parlato in passato, che ha avuto per protagonista l’americana Warner Bros in contrapposizione con il servizio di hosting Hotfile. Quest’ultimo, invece di limitarsi a difendersi dall’accusa di aver favorito la diffusione di file illeciti sui suoi server, ha presentato una domanda riconvenzionale accusando lo studio holliwoodiano di aver abusato degli strumenti messi a disposizione proprio da Hotfile al fine di rimuovere direttamente eventuali contenuti illeciti.
Ebbene, nel corso della causa la Warner ha sostanzialmente ammesso l’abuso, cioè di aver rimosso alcuni contenuti che non solo non erano di sua titolarità, ma addirittura non erano nemmeno illeciti, compreso titoli di pubblico dominio ed un software open source.
Secondo la Warner il crawler implementato per cercare e rimuovere i contenuti illeciti sui server di Hotfile avrebbe commesso degli errori (sic!), così rimuovendo tutte le occorrenze di file con titoli contenti “the box”, solo perché un film del 2009 della Warner si intitola The Box. In realtà appare quantomeno strano che il software automatizzato creato dalla Warner non sappia distinguere un file video da un software open source, o da un libro. La conclusione, si tratti di errata programmazione del crawler o di chissà che altro, è che moltissimi contenuti sono stati rimossi anche se i loro diritti non erano nella disponibilità della Warner oppure erano semplicemente file del tutto leciti. E pare che il numero delle rimozioni errate sia anche piuttosto elevato, al punto che proprio dal numero Hotfile arguirebbe che non era materialmente possibile che fossero controllati tutti i file, circostanza poi ammessa dalla stessa Warner quando ha sostenuto che non è possibile controllarli tutti (“could not practically download and view the contents of each file prior to requesting that it be taken down”).
Appare evidente la gravità dell’accaduto se si considera che la normativa Usa (DMCA) prevede che il titolare dei diritti renda una dichiarazione sulla veridicità di quanto dichiarato nella richiesta di rimozione, a pena di “spergiuro”. Siamo in presenza quindi di una serie di dichiarazioni false effettuate dalla Warner, le cui conseguenze dovrebbero essere pacifiche, anche se lo studio holliwoodiano si trincera dietro il paravento delle “occasional mistaken takedown”. Anche se fosse stata solo una la rimozione illecita, la vicenda deve ritenersi ugualmente grave, e certamente non possiamo risolvere la vicenda come fosse una mera questione statistica, nel senso che qualche errore di rimozione in fondo non fa nulla. Dietro una rimozione errata ci sono i diritti di altre persone, che vanno tutelati allo stesso modo dei diritti della Warner.
Ed è evidente che episodi di questo genere, visto che di abusi in materia di copyright ormai ne stanno venendo a galla parecchi, dovrebbero essere attentamente ponderati per orientare correttamente il dibattito italiano sulla regolamentazione del diritto d’autore in rete a mezzo della delibera AgCom, apparendo ovvio che una sorta di privatizzazione della tutela dei diritti d’autore può portare ad abusi di questo tipo.
La delibera AgCom, infatti, che segnatamente s’ispira alle “best practices” americane, potrebbe portare anche in Italia ai medesimi abusi del caso Warner-Hotfile, in quanto essa introduce una prima fase della regolamentazione nella quale tutto è demandato alle parti, intendendosi per tali da un lato il presunto titolare di diritti, che afferma (senza necessità di dimostrarla) la sua titolarità, e dall’altro il gestore del sito, il quale non necessariamente è colui che immette in rete il contenuto presunto illecito. È evidente che il gestore del sito, in quanto terzo nella contesa, ha scarso se non addirittura nessuno interesse a contestare e contrastare la pretesa del supposto titolare dei diritti, anzi potrebbe anche ritenerlo controproducente perché significherebbe aprire un contenzioso nei confronti di una grande azienda, una multinazionale.
Appare ovvio che tra il provider e il gestore del sito, entrambi in genere grandi aziende, proprio il soggetto più debole, cioè il privato che immette i contenuti in rete, sarebbe il meno tutelato, potendo addirittura accadere, dati i tempi stretti della prima fase della disciplina AgCom, che non venga affatto avvertito della contestazione. Ed anche se lo fosse dovrebbe essere lui stesso ad impugnare il provvedimento dinanzi all’AgCom, oppure in alternativa dinanzi alla magistratura, con inversione dell’onere della prova e degli oneri finanziari legati all’avvio il procedimento.
Quale privato, ci chiediamo, inizierà mai una azione giudiziaria, con i costi e i tempi che ben conosciamo, solo per far valere il suo legittimo diritto a vedere pubblicato un contenuto ritenuto erroneamente rimosso da una multinazionale?
Ma, soprattutto, anche se ciò avvenisse ed il privato ottenesse alla fine il riconoscimento del suo diritto, visto che tra le “best practices” Usa non abbiamo ritenuto di introdurre una sanzione per il titolare che effettua dichiarazioni false, la conseguenza a suo carico potrebbe essere al massimo un risarcimento morale (se l’azione si è svolta in sede giudiziaria) commisurato all’interesse del privato di avere online un contenuto gratuito a fini di mera condivisione con gli amici. Insomma, pochi euro, se non addirittura nessuno.
In conclusione, è probabile che eventuali abusi stile Warner, che a quest’ultima potrebbero costare caro per lo “spergiuro”, in Italia produrrebbero conseguenze minime o addirittura nulle, così che le aziende potrebbero essere fortemente tentate di procedere a testa bassa nelle richieste di rimozione di contenuti.